Nome, cognome e carta di identità. E’ il primo imprescindibile passo per poter accedere alla Casa Circondariale di Ferrara. La mia prima mezz’ora trascorre nella perplessità più assoluta. E’ a dir poco ovvio che sono arrivata con largo anticipo, intorno a me un brulichio di persone che mai avrei creduto di poter veder passare per un carcere, ma nessuno che come me attenda per la visita guidata. Oltre alla polizia penitenziaria che accoglie e presidia l’area, personale per le pulizie, per la raccolta rifiuti, elettricisti, postino, parroco, medico, avvocato. E’ un micromondo. Una città nella città, come mi confermeranno poi. Continuo ad essere sola e ad interrogarmi: qualcuno prima o poi mi raggiungerà!? Mi rincuora, dopo mezz’ora di attesa, vedere Giorgio, Francesca e Don Domenico Bedin, di Viale K, l’associazione che da anni gestisce il progetto del GaleOrto. Giorgio ormai da anni ha deciso di dare una mano al progetto. Francesca invece collabora al progetto da soli quindici giorni, a conclusione di un corso di formazione sul volontariato in carcere organizzato da Agire Sociale. Mi dice che è lì per imparare dai detenuti. Dodici mesi di impegno volontario. E ciò mi pare meraviglioso. Nel frattempo, a spicciolate, arrivano altri che, come me, sono venuti per curiosare tra le mura di questa Casa.
Siamo accompagnati nella visita dell’orto dai responsabili di Interno Verde, il festival che riapre i giardini di Ferrara che per questa terza edizione hanno avuto la bellissima idea di inserire tra i giardini aperti, in una sorta di anteprima assoluta, quello del Carcere cittadino. Con noi, oltre ai volontari che ci guideranno in questa particolare esperienza, la polizia penitenziaria, il personale educativo, la direttrice della Casa e due detenuti in semilibertà.
Sono sinceramente emozionata. E’ un luogo che mi affascina, nel bene e nel male, proprio per la sua inaccessibilità, per il suo essere luogo al limite, di frontiera.
GaleOrto, l’orto in carcere, è in primis un progetto educativo che vuole attraverso il lavoro, responsabilizzare, integrare, educare e sostenere chi, tra i detenuti, volontariamente decide di aderire al progetto e dedicare competenze, tempo e buona volontà nella coltivazione e raccolta di frutta e ortaggi. La lista di attesa dei detenuti che vogliono partecipare al progetto è lunga. C’è chi ha già esperienza nel settore agricolo e chi frequenta veri e propri corsi professionalizzanti. Come Francesco che è in carcere a Ferrara da 13 anni, e altri 10 li ha già scontati in un’altra struttura. A parlarci sembra impossibile possa aver commesso reati tanto gravi. Lui è dal 2015, da quando è nato il progetto, che ci lavora, con alti a bassi, anche a seconda delle priorità. Si perché anche in carcere, per quanto il tempo sia l’unica cosa che non manca, ci sono delle priorità. La scuola per esempio, tra un mese dovrà sostenere l’esame per il diploma di agrotecnico all’Istituto agrario della città. E’ preoccupato perché in carcere non ha molti strumenti per studiare, ha accesso al computer ma non a internet se non per alcune risorse limitate come wikipedia. D’altronde come si diceva nelle nostre campagne “le mei la pratica che la grammatica!”. Viene da Reggio Calabria Francesco e a breve concluderà finalmente il suo percorso di vita in carcere. Fuori, grazie a Viale K, lo attende un progetto di inserimento lavorativo.
L’intento del progetto è principalmente quello di dare una possibilità di riscatto, insegnare un mestiere, insegnare a collaborare per poi poter inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro una volta usciti. La collaborazione è il primo insegnamento dell’orto. I detenuti si autogestiscono, chi ha più esperienza coordina il gruppo, individua le esigenze e le priorità. Per tanto tempo si è pensato che nella vita detentiva più attività venivano svolte dai detenuti più i rischi in termini di sicurezza aumentavano. Ma avere un obiettivo, che sia quello di ottenere un diploma o imparare un mestiere, è performante, è edificante. E ciò si traduce in un calo vorticoso di casi di violenza e recidiva.
L’orto è suddiviso in 3 aree. Quella denominata “Intercinta” che è a tutti gli effetti fuori dalla giurisdizione del carcere, e occupa circa due ettari e mezzo attorno agli edifici della Casa. Lo troviamo vuoto, arato, in preparazione e procinto di essere seminato. In questo spazio, concesso in comodato d’uso gratuito a Viale K, ci lavorano alcuni detenuti in semilibertà, a loro volta associati a Viale K. Ci coltivano prevalentemente le zucche violine, ma quest’anno, per rotazione, sono state spostate nell’orto comune dei detenuti. Che è il secondo orto che incontriamo nel nostro percorso. Distribuito su circa 3 ettari e diviso in 4 lotti, qui 20 detenuti ci coltivano zucche, pomodori, fragole, cipolle, patate che una volta raccolti vengono distribuiti con grande generosità a tutti i detenuti. Ciò che rimane, alle volte poco, viene donato alla Caritas.
Forse è davvero l’unico orto biologico e a km 0 della città. E l’abbiamo potuto verificare assaggiando le buone fragole che ci hanno preparato. E qualcuno dei visitatori, grazie alla generosità dei detenuti, se ne è andato a casa con addirittura una cassetta piena di fragole, che, ad ogni passo, è stata arricchita dai detenuti da cipolle, origano e quanto di buono abbiamo incontrato.
Il terzo orto è il più piccolo e neanche un centimetro è lasciato incolto dai tre detenuti che lo gestiscono. E’ l’orto dei “collaboratori di giustizia”. Si perché quello di Ferrara è un carcere di media e alta sicurezza, cioè al suo interno vengono ospitati anche terroristi e collaboratori di giustizia. E’ orientato a nord, e pecca di meno sole rispetto agli altri, ma è veramente ricco di varietà: origano, basilico, ciliegini, girasoli, zinie, insalata, peperoncini piccanti e pomodori. E come tutti gli altri orti risente o giova, dipende dai punti di vista, dal confronto tra le diverse scuole di pensiero di chi ci lavora. C’è chi coltiva da nord a su, chi da est o ovest. Chi marca le piante con i nomi comuni, chi invece pretende il nome in latino. Scontri genuini che consentono all’orto di cambiare forma durante l’anno.
Non sempre progetti educativi di questo tipo trovano terreno fertile e strade spianate. La carenza di risorse e di volontari che coordinino e alcune difficoltà pratico-logistiche spesso ne rallentano le possibilità di successo o la naturale prosecuzione. All’inizio è stato complicato, in primis per la mancanza di un pozzo artesiano e di un impianto di irrigazione che invece oggi stanno trovando concretezza. Nel 2017 l’Associazione Viale K ha chiuso, con grandi sforzi, un bilancio di progetto in pareggio, anche grazie alla collaborazione delle aziende agricole “Boarini” che ha donato le piante e “Laudato Sì” per la lavorazione del campo nell’Intercinta. E’ come se la Casa fosse una città dentro la città, autonoma e senza necessità di relazionarsi con l’esterno. Ma non è così, c’è un enorme bisogno di interazione, soprattutto con il mondo imprenditoriale per costruire percorsi e opportunità lavorative post detenzione.
2 commenti
Un’esperienza incredibile raccontata come cronaca di un mondo che a tutti noi è sconosciuto, perchè separato da un muro che è un confine. Grazie.