

E se Alphonse Mucha e Giovanni Boldini si fossero incontrati nella Parigi fin de siècle?
Immaginiamoli in un cafè di Montmartre, tra il fumo delle sigarette e il tintinnio dei bicchieri. Mucha, con indosso la sua camicia tradizionale slava, parla di arte come strumento di libertà e identità culturale e Boldini, dall’altro lato del tavolo, sorseggia un caffè mentre riflette sulla bellezza delle sue modelle e sul fascino irresistibile del movimento. Entrambi osservano le donne che passano lungo la strada: per Mucha sono figure eteree, quasi intangibili, simboli di un’epoca che insegue la trasformazione; per Boldini sono creature in carne e ossa, donne moderne che sfidano le convenzioni con la loro indipendenza.

La mostra presentata a Palazzo dei Diamanti, dal 22 marzo al 20 luglio 2025, vuole essere non solo un’esposizione di capolavori, ma un racconto a due voci: cosa significa essere moderni? È la sensualità onirica e decorativa di Mucha, o il realismo vibrante di Boldini? Due artisti, due visioni della femminilità, due modi di raccontare un periodo denso di rivoluzioni.
Di Mucha, molti riconoscono le linee sinuose, le composizioni armoniche che richiamano l’universo decorativo e floreale dell’Art Nouveau, le donne dai capelli fluenti e dagli sguardi magnetici. I suoi lavori trasformarono la pubblicità in un’esperienza estetica: riuscì infatti a imporsi come maestro al punto che si parla ancora oggi dello Stile Mucha. Nato in Moravia nel 1860, visse l’occupazione dell’Impero austro-ungarico e sognò l’indipendenza della sua patria, la futura Cecoslovacchia.

Alla fine del XIX secolo, quando Parigi era il cuore pulsante del mondo artistico, Mucha vi si trasferì per lavoro. La svolta arrivò nel 1894, anno dell’incontro e poi fortunata collaborazione con la celebre Sarah Bernhardt per l’opera teatrale Gismonda, che sancì il suo successo. Affascinata dalla sua arte, l’attrice gli offrì un contratto di sei anni e, da quel momento, le sue immagini divennero il simbolo visivo della Belle Époque.

Il talento dell’artista ceco non si esaurisce però nei manifesti: in quegli anni Mucha lavorò come scenografo, decoratore, designer di gioielli per Georges Fouquet. Credeva infatti che l’arte dovesse far parte della vita quotidiana e per questo si occuperà della decorazione di mobili, stoffe, vetrate, persino banconote e francobolli. Nell’arco della sua carriera Mucha è riuscito a trasformare la figura femminile in un’icona senza cadere mai nello stereotipo: le sue donne non sono solo graziose, ma forti, indipendenti, moderne.

Nei suoi manifesti pubblicitari, il vero protagonista non è mai il prodotto, ma chi lo usa: donne che bevono, fumano, vivono la vita notturna con una libertà inedita per l’epoca. L’arte diventa pertanto strumento di emancipazione e riflessione sui cambiamenti della società, e la sua missione “è esprimere i valori estetici di ogni nazione in accordo con la bellezza della sua anima. E il compito dell’artista è insegnare alle persone ad amare quella bellezza“.

Nonostante la vita lo portò altrove per lavoro, il legame con la sua terra e la sua cultura restò indissolubile tanto da renderle omaggio realizzando la sua opera più monumentale, l’Epopea Slava, un ciclo di venti imponenti tele che raccontano la storia e l’anima del suo popolo e che nel 1928 donerà alla città di Praga.
Proseguendo nelle tre sale dell’ala Tisi di Palazzo dei Diamanti, ci accoglie il busto in bronzo di un Giovanni Boldini ormai trentasettenne, che sembra accompagnare il visitatore all’interno dei suoi atelier parigini.

Ferrarese di nascita, parigino d’adozione, Boldini è maestro del ritratto e interprete dell’eleganza femminile della sua epoca, di cui catturava l’energia vitale con pennellate rapide, quasi elettriche, capaci di restituire il movimento, l’essenza fugace di una società in trasformazione.
Arrivato a Parigi negli anni ’70 dell’Ottocento, Boldini si inserì nell’alta società, frequentando le dame più illustri e gli intellettuali del tempo. I suoi ritratti divennero in poco tempo oggetto del desiderio: in un mondo dominato dall’apparenza, lui sapeva trasformare ogni donna in un’icona. Osservando le sue opere notiamo subito che le modelle non sono mai immobili, gli abiti fluttuano, le pose sono teatrali, le espressioni intense e vive. È questa l’epoca in cui la fotografia inizia a diffondersi, e Boldini non solo compete con l’obiettivo fotografico, ma sfida la staticità dell’immagine: invece di congelare l’istante, lo amplifica, lo estende, lo rende eterno. Le sue donne non sono figure eteree, ma presenze magnetiche che dominano la scena e, avvolte in abiti di seta cangiante, sembrano emergere dalla tela, catturate in un movimento spontaneo. La velocità della sua pittura rifletteva con straordinaria efficacia l’energia della Belle Époque, un’era di grandi cambiamenti in cui, per la prima volta, le donne si stavano affermando come protagoniste della società.

Non sappiamo se i due artisti abbiano mai davvero incrociato i loro sguardi, ma questa mostra ce li presenta finalmente insieme, spingendoci a riflettere su cosa significhi essere moderni. È la delicatezza onirica di Mucha o la vibrante energia di Boldini a rappresentare meglio il loro tempo? Forse, la risposta sta proprio nel mezzo: nella tensione tra sogno e realtà, tra eleganza e passione, tra bellezza e trasformazione.

Sara ha scelto Ferrara per restare, ma spesso torna nel suo paesello in un pezzettino d’Abruzzo a respirare e sgranchire le gambe.
Ha rincorso l’arte, la sua grande passione, dapprima con gli studi e ora con il lavoro: si occupa di didattica museale e collabora con le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara. Legge haiku e ascolta tanta musica rock, il suo odore preferito è quello del pane: se non la trovate, è sicuramente col suo taccuino su una montagna. Giusto il tempo di un’alba.