di Silvia Belcastro
È uscito lo scorso settembre, per le edizioni Fernandel, Padre terra, l’ultimo romanzo dell’autrice veneta Barbara Buoso, quinto lavoro letterario che segue di poco la raccolta Espropriazioni (Vita Active Nuova Edizioni).
La storia è ambientata in Polesine, ma traccia un ponte letterario con il ferrarese raccontandoci non solo una pianura condivisa, ma anche una cultura trasmessa ancora oggi solo attraverso l’oralità: la cura delle “strolghe”, le medichesse e guaritrici di pianura di antichissima origine, di cui da molti anni a Ferrara si occupa la studiosa e scrittrice Daniela Fratti (che proprio in questi giorni ha presentato in città il suo ultimo lavoro).
Come ha detto la scrittrice, critica e saggista Saveria Chemotti alla prima padovana dell’opera, Padre terra di Barbara Buoso è un balsamo, una piccola cura da dedicarsi in un pomeriggio di quiete, spegnendo il telefono cellulare per lasciarsi incantare da una voce trasparente e familiare.
In un paese nel cuore di un Polesine magico e struggente, Primo e Rosalba desiderano un figlio che non arriva. Esauriti i voti, le preghiere, le offerte e la recita dell’Erbo Divino, la gente chiacchiera. Rosalba si dispera e si rivolge a una medichessa di pianura, depositaria dell’antica arte di curare con le erbe e il sangue. La donna, detta la Botanica, è però invisa alla comunità per via di un passato misterioso e avverte la coppia che invocare il fiat vitale è un maneggio di ardimentosa complicanza, poiché richiede di accedere a una parte nuova di sé, più alta. La Botanica “incanta” quindi i gerani con il sangue mestruale di Rosalba e l’oscura forza della natura le risponde: in nove mesi, il rosso dei fiori risale la facciata bianca della casa e la pancia di Rosalba si gonfia come una torta pasqualina benedetta.
È notte, quando Giovanni viene alla luce, ma poco dopo Rosalba muore, restituendo il rosso del sangue al bianco del lenzuolo. Vita e morte, buio e luce, rosso e bianco: i crinali del sopramondo e del sottomondo si avvicendano sin dalla nascita di Giovanni… e va da sé che la comunità gridi al sortilegio, emarginando la Botanica.
Gli anni trascorrono e Primo è un padre che insegna al figlio l’unica legge che tutto include: l’alfabeto elementare dell’amore. La cura di Primo si rivolge a ogni creatura, oggetto e parola che corre sopra e sotto la terra… e di “parola” davvero si tratta, perché Giovanni cinguetta da subito in più lingue. Ha una lingua per il padre e gli oggetti della vita quotidiana, ma ha anche una lingua per le tortore, il granturco e il cielo… e questa è la lingua in cui chiacchiera con sua madre Rosalba.
L’infanzia scivola nell’adolescenza e il paese non dimentica la stranezza di quella nascita. L’amicizia profonda con un ragazzino, Michele, ravviva il fuoco delle dicerie: ora Giovanni, già macchiato d’ombra, parla anche la lingua libera del cuore? Anche delle parole umane la gente ha paura, benché non vi siano sortilegi e siano parole belle quelle che Giovanni e Michele si dicono giocando coi loro volti color miele, coi piedi liberi da lacci e impedimenti, le mani a raccoglier foglie come fossero coriandoli. L’occasione di estirpare il marchio della stranezza arriva quando Giovanni compie tredici anni, perché il paese lo chiama a compiere il rito che lo renderà uomo, dandogli un nome tra gli adulti: l’uccisione del maiale.
È difficile dire ciò che è “al centro” di un’opera di Barbara Buoso. La presentazione dei suoi lavori da parte di Emma Dante e Mario Martone ha già illuminato una scrittura che, come il bambino Giovanni, è naturalmente impastata di un amore per più linguaggi: tra questi ci sono il teatro, il cinema e la fotografia, spazi in cui è la posizione dei punti luce a determinare il visibile e l’invisibile. In Padre terra, l’angolazione dello sguardo dell’autrice dirige il lettore verso una soglia: la scelta di Giovanni. La croce a cui viene legato il maiale è il punto di fuga – punto senza tempo e dimensione – su cui il romanzo precipita. Lì, il seme della cura di Primo si spacca e Giovanni, assieme alla storia, inizia a cercare la sua fioritura: lì Giovanni si rivela e di lì si rinnova, irradiandosi in ogni direzione. Sotto la croce del maiale, viviamo con lui l’eterno istante del male e della reazione al male: Come riuscire a mediare tra la foga innata e la giusta punizione all’impulso che viola le regole? Tra le aspettative della comunità e l’assecondare il proprio cuore?
Seguiremo Giovanni dall’infanzia alla maturità e lo vedremo fermarsi su ogni gradino della vita, per cercare di volta in volta il suo margine di scelta di fronte alla terra, agli animali, al bullismo dei compagni, all’amicizia, all’amore e infine alla parola:“Un bel colpo, fondo, forte”. Forse avevano detto qualcosa di simile anche a sua madre, quando lui era venuto al mondo. […] Perché non sono morto io, invece?
Nel punto di contatto tra piani dell’esistenza, Barbara Buoso ci porta a vedere una compassione che include oggetti e creature in un incessante chiacchiericcio tra uomo e natura, umano e divino, animale e vegetale, terra e parola. La cura per i bulbi di tulipano è la stessa che tempera la matita, apre il quaderno e sceglie le parole da dire e da tacere: la pazienza di tirare via le erbe vicino alla pianta, stando attenti, con la lama affilata, a non far male alle radici.
Finché, ogni cosa ha una voce meticcia e presa a prestito da un altro regno, compreso il silenzio: le parole dei commercianti somigliano agli sciami delle vespe incattivite quando piove e gli sguardi delle persone sono rapaci che si posano sui ricordi belli vissuti con l’amico. I capelli di Giovanni sono un rovo arso di sicomori e persino il vento – frush frush frush – ha una sua parola: siamo forse noi che, dalle nostre prigioni, non sappiamo più ascoltare? La cura di Primo fiorisce nella lingua di Giovanni che gattona verso la scaletta di legno perché vuol recitare la sua lettera d’amore alla madre, al padre, all’amico, all’amata e infine al creato. È l’indicibile sentimento della tenerezza – come quando si ritrova qualcuno che si temeva di aver perduto per sempre – declinato in una figura paterna che ha una straordinaria bellezza proprio perché fedele a una sola legge: la cura di ogni cosa.
Ma questo Polesine di padre che cresce il suo bambino è anche la terra della Dea Madre veneta, Signora degli Animali, Madre della Scrittura e Natura lei stessa. Scrive la studiosa ferrarese Daniela Fratti nel suo La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno che la cura delle medichesse delle nostre zone ha sempreavuto – e tuttora ha – l’obiettivo di ripristinare l’equilibrio e l’armonia del “sacro dentro di sé”, e che non di rado usano il sangue mestruale, poiché la loro saggezza discende da un matriarcato primigenio che ha le sue radici nel culto di Reitia, l’energia creativa racchiusa nella terra stessa. Se dunque Reitia sa ribaltare il nero in bianco e il buio in luce, il maschio in femmina e il sangue in fiore, è forse a lei che si rivolge l’incanto della Botanica? Non lo sapremo mai, ma di certo l’atto poetico di Buoso è un movimento verticale che cade e risale un pozzo oscuro – strati di terra, dolore, tempo, mito e letteratura – per venire alla luce.
Ci ricorda che ogni creatura anela a un’ardente fioritura. Tutti noi siamo in attesa del miracolo, come fiori e animali esposti al male fisico e morale del mondo, ai venti di una pianura senza riparo. La vita può innestarci con il nostro stesso sangue e ne moriamo, ma quella stessa vita può eternarci nel nostro bambino-talea. Giovanni è la nostra parola-gesto-gentilezza: la maraveja segreta che, nonostante tutto, possiamo lasciare nel mondo.