I fiori possiedono qualità straordinarie: vibranti, multiformi e pieni di vita, le loro superfici talvolta evocano la delicatezza della pelle. Questa bellezza, fondamentale per la riproduzione e la conservazione della specie, suggerisce affinità con le forme del corpo umano, creando similitudini sorprendenti. Separare un fiore dalla pianta che lo ha generato e collocarlo in un vaso può trasformarlo in un semplice soprammobile. Eppure, nonostante il suo tempo vitale possa accorciarsi, quel fiore è capace di assumere nuovi significati. Le sue geometrie, catturate in un istante di grazia, possono offrire interpretazioni che lo rendono meno effimero, proprio come gli incontri tra corpi, dove fragilità e forza si intrecciano in storie di riconoscimento e connessione.
Abbiamo fatto una chiacchierata con Maria Chiara Bonora in occasione della sua mostra “A fior di pelle” , che dal 18 al 20 ottobre è ospite del laboratorio floreale Wildflowers (non lo conoscete? Ne abbiamo parlato qui).
Maria Chiara ci ha aperto i suoi giardini segreti, trascinandoci nel bel mezzo di una rappresentazione teatrale dove i fiori sono attori che ripetono molte volte la scena di un incontro o frammenti di esso.
Puoi raccontarci qual è il ricordo più vivido che hai legato ai fiori? Come pensi che abbia influenzato la tua scelta di iniziare a fotografarli?
Molti dei fotografi che seguo o che stimo del passato si sono confrontati con questo tema. Credo sia un passaggio, un tema col quale prima o poi ci si confronta. Ho spesso fiori in casa: all’inizio li compravo per celebrare alcune ricorrenze, poi ho pensato che fosse un gesto gentile comprarli per se stessi. Il primo fiore che ho fotografato, a fine 2020, era un anthurium rosso: volevo fare un ritratto con il fiore rosso al posto del cuore, come se il cuore fosse a vista, fuori dal petto, irrorato e pulsante. Era solo un esercizio, ma era anche uno stato d’animo di quel momento e col tempo ho pensato che altri fiori avrebbero potuto aiutarmi a visualizzare alcune emozioni che non avevano parola.
Nelle tue foto i fiori sembrano disegnare i contorni del tuo corpo. Per cercare quello giusto, segui un criterio specifico o ti lasci guidare dall’intuito?
Ciò che accade più spesso è avere un’idea di composizione e cercare la soluzione per realizzarla. Per esempio nella fotografia con la schiena e la kniphofia, cercavo un fiore longilineo e appuntito, che potesse essere impugnato come una spada. Difficilmente mi capita di provare e vedere come va: non sono brava ad improvvisare.
Dicci qualcosa in più sulla costruzione delle tue composizioni. Quali tecniche utilizzi?
La risposta sarà banale: a tentativi. A volte la stessa fotografia l’ho rifatta con fiori diversi fino a trovare ciò che desideravo: quella con le dalie, per esempio, è stata rifatta tre volte (la prima con aglium e la seconda con garofani ponpon). Tutte le fotografie di “A fior di pelle” sono scattate in casa, in luce naturale, in varie ore del giorno. Per posizionare i fiori a volte mi sono fatta aiutare, per esempio nella fotografia con i giacinti rosa. E poi scatto con un telecomando. La post produzione è limitata a calibrare i contrasti, i toni, la saturazione dei colori.
Maria Chiara ci confessa che è sicuramente la forma, la geometria, la componente più importante nelle sue fotografie, e che il colore e la luce sono una naturale conseguenza della forma. Anche lei ha un fotografo del cuore, Edward Weston, ma tiene a sottolineare quanto essenziale sia l’esercizio di guardare fotografie di artisti contemporanei. I suoi appunti visivi, ci dice, derivano dalla costante ricerca artistica ma in buona parte anche dai ricordi o dai sogni.
Nella tua poetica, il concetto di incontro emerge spesso. Puoi spiegarci cosa intendi? È un incontro tra due persone, tra te e il fiore, o qualcosa di più astratto?
È un concetto molto concreto ed è l’incontro tra due persone, interpretato attraverso il contatto con il fiore. La scoperta avviene lentamente, con delicatezza e rispetto e coinvolge tutti i sensi, lasciando tracce nella memoria della scoperta precedente.
Si tratta di un incontro anche quello con Wildflowers, che ospita la tua mostra. Come laboratorio floreale, la stagionalità è fondamentale nella scelta dei fiori. In che modo questa idea si ritrova nelle tue fotografie? C’è un particolare momento dell’anno o un ciclo naturale che hai voluto rappresentare?
Voglio catturare la stagione in cui ci si innamora, un momento che evoca delicatezza e bellezza, proprio come i fiori. Mi ispiro ad un immaginario romantico, nel quale il conoscersi è un privilegio e il concedersi alla conoscenza dell’altro un atto di fiducia.
Permettimi un’ultima domanda: c’è qualche esperimento fatto proprio in occasione di questa mostra?
Cercare di raccontare qualcosa senza una vera storia, una trama, un intreccio. Ho cercato più di lavorare sulla suggestione, col rischio che non tutte le scelte fossero giustificabili. Questa è una deformazione professionale, che viene dal mio lavoro.
Maria Chiara di mestiere fa l’architetto. Forse è per questo che pare utilizzare la fotografia non solo per ricordare, ma perri-costruire, per ri-parare.
Ci confessa che sta già lavorando al prossimo progetto, mentre lo dice sistema timidamente i capelli quasi per prender fiato, le sorridono gli occhi: “Sarà più una ricerca di leggerezza, che un catalogo, ma è tutto da pensare”.
Noi non vediamo l’ora!