Non abbiamo nessuna voglia di cavalcare la polemica che si è generata nei giorni scorsi, sia ben chiaro, ma solo di allargare il discorso un po’, perché quando un evento come il Ferrara Buskers Festival cambia così dopo 37 anni è ovvio che se ne parli un po’ ovunque.
Il festival è qualcosa che per chiunque abbia meno di quarant’anni è abitudine radicata, un evento che ha vissuto nascita, esplosione e normalizzazione ma che ha sempre avuto nel centro cittadino il suo cuore. Non è un evento, come magari il Festival di Internazionale, che coinvolge solo chi ci partecipa, è un evento che coinvolge chiunque ci passi, anche per tutt’altro motivo e si trovi dentro a piazze improvvisate, strumenti, giocolieri e piccoli eventi di circo di strada. Ti arriva addosso, mentre cammini: almeno fino a quest’anno.
E se abbiamo raccontato, in questo articolo, luci e ombre della prima serata (anche se nel weekend il ritorno di pubblico c’è stato), se si è discusso nei bar e nei social del biglietto, dei luoghi, del programma e tutto quello che era questa nuova versione, quello che forse è mancato nel dibattito è un pensiero verso chi, realmente, il festival lo fa. E non parliamo dell’organizzazione, ma degli artisti.
Quelle persone, alcune italiane e altre invece da luoghi lontani nel mondo invece, cosa hanno vissuto? Come si sono trovate, che pubblico hanno scoperto, quanto è sostenibile per loro un festival di strada dove le persone pagano un biglietto d’ingresso? Quanto il pubblico è stato ancora disponibile a retribuire l’artista, quindi in soldoni: quanto si è riempito il cappello?
“Per me è la prima volta in Italia, io vengo da Tokio” ci ha raccontato Eppai, fenomenale e folle orchestrina giocattolo di strada. “Personalmente sono comunque contento della mia esperienza, di essere qui, sono enormemente grato della possibilità. Certo, mi è capitato che tanti pensassero che essendoci un biglietto, noi artisti siamo stati già pagati e questo non è vero. Come è normale, a parte l’alloggio, il nostro stipendio sta nell’offerta dopo la performance. Ed è la prima volta che mi trovo in una situazione così, ho fatto tanti festival nello stesso Giappone e non mi era mai capitata l’esperienza di un festival chiuso ai paganti. Se guardiamo alla situazione in sé, non è ovviamente sostenibile, economicamente, ma non è un problema, domani sarò in Serbia e poi in Germania e sono comunque estremamente felice della risposta del pubblico e dell’esperienza”.
“Recentemente sono stato a Edimburgo, in un festival di strada molto grande e devo dire che apprezzo molto la risposta che ho trovato qui a Ferrara” ci ha invece raccontato Lay Lee. Il suo spettacolo è un delicatissimo affresco di danza all’interno di un enorme cerchio, che termina in una performance con il fuoco di rara eleganza.
“Quello che ho trovato dentro, qui, in queste sere da venerdì a domenica è stata una grande concentrazione. A Edimburgo, per dire, c’erano tante più persone ma meno presenti, meno dentro alla mia esibizione. Certo: a livello economico le persone danno quello che possono, avendo già pagato il biglietto ma personalmente sono comunque felice di questa esperienza, ne sono estremamente orgoglioso. Io vengo da Hong Kong, da noi non esiste un evento simile e per me è comunque una esperienza di cui essere orgoglioso. Mi sta bene ad ogni modo.”
Se i primi due artisti erano all’esordio in città, c’è chi viene ininterrottamente dal 2008, racconta, come l’artista El Kote, dal Cile, funambolo di strada, che porta in giro un dinamico e spettacolare circo di strada.
In una curiosa conversazione dove noi facciamo le domande in più o meno spagnolo e lui ci risponde in più o meno italiano, ci spiega la sua visione rispetto alle novità di quest’anno. “So che quest’anno tutti ne parlano, io credo che ogni cambiamento sia giusto e che vada accolto, che possiamo trovare un equilibrio nuovo in ogni caso. Certo, è anche possibile sbagliare, ma è anche possibile correggersi. E per me la cosa fondamentale è che siamo comunque qui, in questo contesto in cui il festival comunque esiste, così come il pubblico e la performance di noi artisti. Certo, lo spettacolo magari di altri anni in Piazza Municipale, ad esempio, raccoglieva un pubblico molto più ampio ma ripeto: ogni cambiamento può essere positivo. Quello che sicuramente avverto, però, è che ci vorrebbe una maggiore tutela per l’artista: ad esempio se pranzo in centro, pago la stessa tariffa di un normale turista, per noi sarebbe molto meglio essere più assistiti in questo, per poter reggere economicamente”.
Apertura pur nella difficile sostenibilità, questo quanto ci è parso arrivare dalle prime interviste, ma c’è ancora un elemento che hanno citato quasi tutti e che viene espresso a voce alta dagli Strade Aperte, gruppo che costruisce musica e percussioni partendo da tubi ed elementi di vita quotidiana.
“Manca un pò la festa.” esordiscono. “Noi eravamo qui anche lo scorso anno, abbiamo un metro di paragone diretto. Da una parte a livello organizzativo è molto meglio: non ci si accavalla quasi più, non c’è quel caos sonoro che portava magari tre concerti vicini a disturbarsi l’un l’altro e questo è molto meglio. Allo stesso tempo quello che manca è un pò la festa. Il gruppo di cento, duecento persone che all’improvviso si fermano e fanno esplodere danza e entusiasmo. Per ovvi motivi, il pubblico è in un rapporto 1 a 10 rispetto allo scorso anno e questo porta quell’energia a spegnersi. Ieri sera (sabato sera) a mezzanotte, qui al Parco Massari c’era poca gente, l’opposto degli altri anni. E questo, anche a livello di sostenibilità, ovviamente, unito al prezzo del biglietto, rende complessa la sostenibilità per noi artisti. È anche vero che ci sta di provare una formula nuova, si può sbagliare e poi correggersi: abbiamo fiducia che il festival possa trovare un punto di equilibrio”.
In conclusione, quello degli artisti con cui abbiamo parlato ci sembra un punto di vista laterale al prezzodelbiglietto, argomento centrale di buona parte delle conversazioni cittadine di questi giorni, stia in questi temi. Nel fatto che pur organizzato estremamente bene e all’interno di una splendida via (Ercole Primo d’Este) e di un Parco Massari che ben si presta a questi eventi, il Buskers Festival abbia sofferto soprattutto del difficile nuovo equilibrio tra biglietto d’ingresso, numero di persone presenti e sostenibilità degli artisti. Artisti che possono esserci solo se sono in grado di sostenersi e quindi di guadagnare in quello che è il loro lavoro quotidiano.
Verso la fine del suo spettacolo, prima di porgere il cappello, El Kote ha raccontato di come il quattro di settembre il figlio, diciotto anni, uscirà di casa per andare a studiare all’Università.
“Quando è successo tutto questo? Quando è cresciuto così in fretta? Io non ci sarò, a casa, il quattro di settembre, perché sarò in giro per il mondo, per mantenermi e lavorare. Voi genitori, che ora siete qui e che spesso durante gli spettacoli guardate il vostro telefono, non perdete quel tempo. Osservate i vostri figli mentre crescono, lo fanno in fretta“.
Questo forse è il nocciolo: questo festival, questo punto di incontro di artisti e mondi, dove in una sera puoi incontrare persone venute dal Cile, da Tokio, da Hong Kong o da Napoli, questo festival è anche un lavoro. Per chi organizza e per chi ne è protagonista. In mezzo ci siamo noi, con le nostre limitate possibilità, a ragionare, discutere, criticare o capire. Quello che dimentichiamo però spesso è quanto sono profondi gli strati di realtà che ci fanno scegliere di essere spettatori paganti, o donanti. Questo è il ragionamento da fare, dopo l’anno zero, edizione trentasette, del Buskers Festival di Ferrara, per capire che forma futura dare all’evento.
(foto di copertina: courtesy Ferrara Buskers Festival)