Sul lato destro del palco, tra le ultime persone a stare appoggiate alla transenna c’è una signora veneta, di oltre settant’anni. È qui questa sera per ascoltare Daniela Pes, accompagnata dalla figlia, grande appassionata, che gliel’ha fatta conoscere. Quando la signora ha sentito “Carme” per la prima volta ha guardato la figlia negli occhi e le ha detto “questa la devi suonare al mio funerale”.
Un anno dopo la prima volta, Daniela Pes è di nuovo sul palco di Ferrara Sotto le Stelle: l’altra volta era di spalla agli Arab Strap, gruppo scozzese di culto, era all’inizio dell’esplosione del percorso di “Spira” un album che l’ha proiettata in una strana dimensione, non di classifica, allo stesso tempo sulla bocca di molti. E già quella prima volta tra il pubblico c’era un senso di stupore: ma cosa ho appena visto, ma chi è lei, dicevano.
Oggi è la protagonista di un Cortile del Castello stipato, in uno dei primi mercoledì caldi dell’anno.
Quella signora canterà e danzerà spesso anche quando i ritmi si faranno più intensi, così come faranno ragazzi e ragazze giovani, persone più adulte e persone abbondantemente oltre la metà della loro vita. È un pubblico trasversale quello presente stasera e osservandola in un questo concerto, in formazione completa a tre, capiamo una volta di più quanto sia primordiale la formula trovata dalla cantante sarda.
Le canzoni di Daniela Pes sono schegge potentissime che guardano al nostro passato, pur essendo in gran parte strumenti digitali: sono parole inventate o di vecchi dialetti dimenticati, sono tamburi potenti, sono melodie che crescono e salgono e si infrangono come onde potenti sulla spiaggia, vengono dalla terra, dalle viscere, dalle nostre origini.
Qualcuno, prima del concerto, diceva che quando ha scoperto Daniela Pes ha immaginato l’arrivo dei cavalli: è come se fosse in grado di riportarci alle nostre origini, quelle che stanno dentro al nostro DNA, dei nostri antenati.
Ed è stranissimo ripensare ad una esperienza vissuta negli ultimi giorni con un videogioco che ha fatto molto parlare di sé per la capacità di raccontare l’interiorità della mente, in parte ambientato nell’Islanda del decimo secolo.
C’è esattamente la stessa energia, la stessa potenza tribale dei tamburi e delle percussioni suonate ieri sera nel cortile del Castello, c’è la stessa capacità di far cantare canzoni in lingue sconosciute che pure vengono percepite come proprie, c’è la stessa forza che fa arrivare ad un pubblico eterogeneo una proposta difficile, complessa che sa però usare un vocabolario accessibile.
Alcuni momenti memorabili, come il canto di tutto il pubblico nell’ormai classica “Carme”, nelle aperture melodiche di “Arca” (se vuoi capire, uno splendido esempio qui) nelle tensioni quasi, anzi davvero da concerto elettronico di “Illa Sera” e alcune sperimentazioni che sono probabilmente anticipazioni di un secondo album in arrivo nel prossimo futuro.
Non dice una parola, Daniela Pes: è una esibizione che è totalizzante, di pieni e di vuoti, di fragore sonoro e di istanti delicati, è fuoco e terra e vento e polvere e rocce.
Non dice una parola eppure non serve, eppure riempe il palco per oltre un’ora e lascia dietro di sè, nelle persone, la sensazione di avere visto una delle più belle esperienze della musica di oggi, non in Italia, ma nel mondo e infatti nelle prossime settimane sarà in tour in diversi paesi europei.
Non sono servite parole a lei, non ne servono altre a noi: chi c’era lo sa e poi lo spiega agli altri, come quella ragazza alla madre, che le ha detto: questa suonala al mio funerale. Una madre ormai anziana, che fece nascere, ci racconta, quella figlia dall’incontro con un uomo difficile, un gitano, uno che girava il mondo, ci viene da pensare, difficile da comprendere, facile da amare.
Ecco perché le piace Daniela Pes, signora: parla il linguaggio delle nostre radici.