di Francesca Occhi / Osservatorio_FO
Quando si parla di Nino Migliori, come si dice a Ferrara, “ci si toglie il cappello”. Parliamo di uno dei massimi esponenti italiani della fotografia sperimentale e di ricerca che ha infranto le regole per poi dettarle.
La mostra antologica sul suo lavoro fotografico, al Castello Estense fino al 3 giugno prossimo, è organizzata da Ferrara Arte, Servizi Musei d’Arte del Comune di Ferrara e dalla Fondazione Nino Migliori. Il curatore Denis Curti, è anche direttore artistico de “Le Stanze della Fotografia” di Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore, tempio della cultura visuale.
La “ricerca senza fine” di Migliori, ci ricorda che il visivo ha una propria grammatica e un proprio linguaggio. Occorre impararlo, se veramente vogliamo decodificare un mondo ormai saturo di immagini come il nostro e lo si può fare attraverso specifiche competenze visive. Questo è il lavoro che propone ad esempio l’Osservatorio che ho creato da poco più di un anno: divulgare la cultura visuale. “Ho sempre considerato la fotografia alla stregua della scrittura. Di conseguenza, il racconto è inevitabilmente il punto di vista del fotografo”, amava dire Migliori, sottolineando appunto questo concetto.
La mostra presenta un’alternarsi tra figurativo e sperimentale. Il ritmo visivo, scandito attraverso le sale, ci mostra come l’opera di un fotografo può variare a seconda del soggetto della propria analisi, che sia un segmento di vita reale o l’approccio ad una tecnica.
Si inizia con gli autoritratti dagli anni Quaranta a Settanta, per poi proseguire con “Muri e Manifesti strappati”, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Come racconta l’autore, il muro rappresenta “la pelle della città”. La parete è stata mezzo di rappresentazione per l’uomo, come la tela bianca lo è per il pittore. Un manifesto strappato può diventare anche una raffigurazione di un paesaggio immaginario. L’accento è posto su quanto viene rimosso, sulla scomposizione, la sottrazione e la stratificazione più o meno casuale.
Tornando al figurativo, il progetto complessivo “Gente”, degli anni Cinquanta, racchiude: “Gente dell’Emilia”, “Gente del Sud”, “Gente del Nord”, “Gente del Delta”. Sono fotografie, ma anche documenti visivi e storici, organizzate in serie che possono vivere isolate.
Come dice Migliori: “si era usciti da poco dalla guerra e sentivo il bisogno di riappropriarmi della vita”. L’interesse per le strutture relazionali della civiltà contadina, richiama fortemente il cinema neorealista che parallelamente raccontava la realtà italiana postbellica.
Negli stessi anni, Migliori porta avanti la sua ricerca sulla sperimentazione, indagando la fotografia off-camera nelle sue varie declinazioni. Quindi non solo fotografia come manifestazione del reale, ma possibilità di creare immagini con la fantasia, il gesto, utilizzando comunque gli strumenti fotografici e inventando nuove tecniche, come l’ossidazione fotografica o il polarigramma.
Negli anni Novanta pone l’attenzione sulla successione visiva e l’accostamento fotografico. In “Binario morto” (1996), fotografa un vero binario abbandonato, utilizzato per il lavaggio delle carrozze, sul quale si accumulano residui catramosi. La successione fotografica che ne ricostruisce la vera porzione, la rende un’opera installativa e scenografica.
In “Alfabeto immaginario” (1995), un pezzo di plastica mosso dal vento, viene fotografato in serie e stampato facendo un collage dei singoli fotogrammi. Il risultato visivo è l’accostamento di tracce e forme che simboleggiano una antica lingua perduta.
In entrambi i lavori, l’elemento reale diviene oggetto di analisi e di studio. Il binario fermo e il pezzo di plastica mosso, sono l’occasione per creare dei ragionamenti sul visivo, elaborando nuovi codici di rappresentazione.
Un lavoro giocoso e dissacrante è “Polifanie” (1983), in cui il ritratto del gallerista milanese Giorgio Marconi, viene smembrato con una macchinetta tagliapasta e ricomposto successivamente assumendo nuove forme. Assistiamo ad una scomposizione visiva sicuramente ironica, ma che in realtà cela un ragionamento molto più profondo sulla percezione dell’immagine. Un parallelo odierno è rappresentato dall’artista Kensuke Koike, in cui la tematica principale del suo lavoro è proprio il processo di scomposizione e ricomposizione di una fotografia.
Questo carattere ironico, che resterà fino all’ultima sala, si ritrova anche in “Arabesque” lavoro più recente (2022-23), ma non meno divertente. Anche in questo caso viene utilizzata la tecnica del collage, già usata negli anni Settanta, prendendo in esame esibizioni dal vivo o frames televisivi non accostati per ordine temporale, ma mischiati a seconda del cromatismo.
Migliori ha sperimentato anche sulle Polaroid (“Trasfigurazioni”del 1997, “Strappi” anni Ottanta), incidendo la superficie e separando la pellicola anteriore dal fondo. Attraverso il gesto e la pressione, egli ci restituisce l’idea stessa di fotografia, intesa come traccia del reale.
Quello di Nino Migliori è un viaggio intenso dentro e attraverso l’immagine. Il suo lavoro, a tratti concettuale, rappresenta un baluardo anche per le giovani generazioni di fotografe e fotografi. La sperimentazione deve continuare anche con il nuovo strumento dell’AI e le sue infinite possibilità.
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