La Biennale Donna è una rassegna voluta da Unione Donne in Italia di Ferrara, che dal 1984 si occupa di valorizzare il lavoro delle artiste e di creare una realtà attiva in cui ci fossero uguali possibilità. Arrivare alla ventesima edizione comporta tanta dedizione ed energie, impegno e ricerca, nonché collaborazioni e sinergie collettive. In questi 40 anni di attività (e attivismo) lo scopo principale della Biennale Donna è stato quello di scompaginare il sistema che vedeva le artiste rilegate a un ruolo passivo e marginale nel sistema dell’arte. Mettere in atto la propria creatività comportava ribellarsi e liberarsi, elaborare un’esistenza intellettuale e artistica autonoma. Pertanto, è quasi doveroso esordire con un enorme augurio: Felicitazioni, Biennale Donna!
Il progetto espositivo che celebra questa ventesima edizione si intitola Yours in Solidarity – Altre storie tra arte e parola ed è stato affidato alle curatrici Sofia Gotti e Caterina Iaquinta. Le curatrici si sono interrogate sulle pratiche e sui linguaggi artistici in correlazione al femminismo, ma altresì sul termine stesso di “Donna”, necessario da assumere in rapporto alle varie sfumature che attraversano il discorso sulla questione di genere.
Il titolo è tratto da un’opera di una delle artiste invitate a partecipare alla mostra, Nicoline van Harskamp, e fa riferimento alla rielaborazione di un epistolario proveniente da una rete internazionale di anarchici che tra gli anni Ottanta e Novanta erano soliti concludere le loro missive proprio con il saluto “Yours in Solidarity”. Nella prospettiva delle curatrici, queste parole possono essere rilanciate per generare reciproco supporto e accordo tra culture, contesti e generi diversi. Pertanto, il concetto di solidarietà abbraccia in maniera trasversale tematiche come colonialismo, migrazione, diritti, marginalità, collettività, identità, attivismo, geopolitica, relazioni interpersonali. Intrecci di percorsi e visioni si concretizzano in questa ventesima edizione grazie a un ampio ventaglio di linguaggi adoperati: pittura, video, installazioni, assemblage, ricamo, performance.
La parola è al centro di questa esposizione, definita di volta in volta da immagine, azione e spazio. La parola è restituita alla materialità, anche del corpo, come elemento performativo del linguaggio e come frammento da rinnovare. La parola come forma, come immagine, oltre che come significato. La parola come strumento essenziale per riscoprire significati, conquistare uno spazio, tessere relazioni e proporre sguardi multidisciplinari.
Eccetto la già menzionata van Harskamp, le altre artiste presenti nella collettiva sono: Binta Diaw, Sara Leghissa, Muna Mussie, Bracha L. Ettinger, Amelia Etlinger. Un gruppo di sei artiste che rappresentano realtà geografiche e appartenenze generazionali diverse, ambiti espressivi variegati, unite da visioni comuni e da propositi condivisi, con l’intento di dare corpo (e materia) a una coscienza collettiva.
Il segno filo e il potere della parola caratterizzano le opere di Amelia Etlinger (1933-1987). L’artista equipara materiali naturali e artificiali, segni codificati e simboli non inventariati e trova nella corrispondenza postale il mezzo consono per esprimersi e per relazionarsi al mondo. Diversi materiali assemblati -carta, tessuto, nastri, fiori secchi- che spediva come messaggi postali.
La parola accompagnata al gesto diventa il registro artistico di Muna Mussie (1978). Il suo lavoro, così come varie collaborazioni con alcune comunità di migranti, dà voce a una memoria collettiva tramite la prassi del ricamo. Il ricamo come azione corale diventa il mezzo per ricostruire le storie di comunità diasporiche eritree approdate in Italia e che emergono da un progressivo processo di cancellazione, che solitamente riguarda le storie non allineate. Tra queste opere, diversi progetti sono legati al concetto di “oblio”, inteso in relazione alla perdita della dimensione mnemonica. Il linguaggio diventa tessile e permette l’incontro con il mito, mentre il gesto include un desiderio di protezione, di cura e di ritualità. Il ricamo nelle opere di Mussie si estende fino a includere la scrittura braille, un linguaggio altro, una comunicazione che rende l’invisibile percepibile.
Le scarne installazioni di Binta Diaw (1995), realizzate con materiale organico, rientrano in una più ampia narrativa che comprende argomenti quali la migrazione, il colonialismo o la diaspora. Il suo lavoro è stato definito “simbolico o evocativo” e punta a condividere e restituire una riflessione intersezionale su storie personali e collettive. Tra il materiale adoperato per la realizzazione di alcune sue installazioni, i capelli tratteggiano un elemento incisivo nella rivendicazione di una identità o di un’appartenenza. “I capelli oltre a essere una materia sono un’estensione del corpo. I capelli crescono dal corpo stesso in seguito a un processo fisiologico. Proprio come con i corpi, le terre, le piante e gli animali, anche i capelli sono stati soggetti a costanti processi di colonizzazione”.
Il percorso espositivo è costruito altresì dai lavori di Bracha L. Ettinger (1948), artista poliedrica e teorica femminista che si dedica alla pittura, alla scrittura nonché alla psicoanalisi per veicolare temi per lei fondamentali come trauma, oblio, memoria, testimonianza. Ettinger ha coniato il termine matrixiel, che deriva da matrix – utero e desidera delineare uno spazio “in cui l’artista e lo spettatore sono connessi attraverso un processo creativo che supera le dicotomie tradizionali tra soggetto e oggetto”. I suoi taccuini e i suoi dipinti sono caratterizzati da una dimensione in bilico tra astratto e figurativo. Tramite gesti fini, l’artista rende visibile l’invisibile e l’arte si tramuta in una critica al sistema patriarcale divisivo e oppressivo.
Decisamente non passano inosservati le lettere cubitali e i manifesti di Sara Leghissa (1984) – ricercatrice indipendente e performer. La voce diventa corpo e la parola viene inglobata nel tessuto urbano come analisi critica o protesta. Lo spazio pubblico è essenziale per la sua prassi artistica, diventa vettore dello stesso processo di ideazione e creazione dei suoi lavori.
La commistione tra parola, corpo, attivismo politico si trova nel lavoro di Nicoline van Harskamp (1975). Il linguaggio e la comunicazione si strutturano in relazione all’ideologia e alla solidarietà. Nel video che dà il titolo alla mostra, Yours in Solidarity, l’artista studia e mette in scena la militanza politica dell’anarchismo in Europa durante la transizione dall’era comunista a quella post-comunista nell’Est tra la fine degli anni Ottanta e inizio anni Novanta.
Rientra nella dimensione politica e dell’attivismo, pure una parte fondamentale dell’archivio dell’UDI (Unione Donne in Italia) relativo alla Biennale Donna. Copertine di cataloghi, volantini, fotografie storiche e lettere sono esposte per la prima volta in una cospicua selezione insieme ad alcuni documenti e oggetti della militanza politica dell’associazione, come per esempio gli stendardi composti di centinaia di nomi di donne ricamati a mano ciascuno singolarmente per poi comporre grandi patchwork.
Storia e presente, memoria e futuro, parola e azione, arte e attivismo. I tasselli da aggiungere sono ancora tanti, altrettante tematiche ancora da affrontare. Buon proseguimento, Biennale Donna…
INFO
Yours in Solidarity – Altre storie tra arte e parola
a cura di Sofia Gotti e Caterina Iaquinta
Organizzata dal Comitato Biennale Donna dell’Udi e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara in collaborazione con la Fondazione Ferrara Arte, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna
14 aprile – 30 giugno 2024
Palazzo Bonacossi
via Cisterna del Follo 5, Ferrara
Orari:
da martedì a domenica, 10:00 – 13:00/15:00 – 18:00
Aperto anche 23 e 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno
Ingresso gratuito