Proviamo a fare un esercizio diverso dal solito, nel rapporto tra lettore e autore: un rapporto di solito basato sul concetto di fiducia. Chi ci legge sa quanto impegno mettiamo nel raccontare le storie di Ferrara, quelle fatte di persone ed eventi, che abbiano un taglio diverso, curato e per quanto ci è possibile approfondito. Un racconto fatto di incontri, interviste, in modo da ricordarvi che ciò che state leggendo è vero, è una buona ricostruzione della realtà e sono le parole fedeli di chi andiamo a conoscere.
Lo ribadisco perché vorrei affrontare un tema che rispetto ad altri conosco personalmente: il tema è il parco di via Monti Perticari, un piccolo parco pubblico quasi nascosto alla vita normale di Ferrara, celato dietro una traversa di via Oroboni e che corre parallelo ai binari della ferrovia. Un parco che vedo ogni giorno, da oltre tredici anni, abitando proprio lì.
I treni a lato del parco passano veloci, fanno vibrare leggermente le case dei vari condomini e accompagnano la vista di un’area verde fatta di una ventina scarsa di panchine, un paio di altalene, i resti di alcuni giochi per bambini che negli ultimi anni si sono rotti e non sono stati ripristinati (un castello di legno dove arrampicarsi, un quadrato dove poter fare piccoli esercizi fisici) e poco altro, tra grandi alberi che salvano molti pomeriggi e serate estive con la loro imponente ombra.
Un piccolo parco, poco frequentato ma dove c’è quasi sempre qualcuno, un cane che passeggia, un paio di bambini, qualche adulto o anziano seduto sulle panchine. In rari casi qualche festa, forse di compleanno o comunque di bambini, quasi sempre di origine straniera, perché di bambini italiani ormai ce ne sono pochi da queste parti. Anche se la frase non significa in realtà niente, perché le persone non hanno nazione, i bambini non hanno carte d’identità, sono bambini, giocano, corrono, crescono tutti quanti. Siamo noi a distinguerli, in uno sforzo di distinzione tanto inutile se guardiamo a millenni di storia umana fatta di migrazioni e lotte per la sopravvivenza: ma ci piace farle, specie in questi tristi anni, fatti di muri e distinzioni. Di divisioni.
Così un giorno appaiono alcuni cartelli che annunciano lavori e un grande prospetto per illustrarli.
La sensazione è stata strana, sin da subito: una recinzione, proprio qui?
Gli abitanti della zona sono tutti a conoscenza delle discusse recinzioni che nel tempo hanno coinvolto diversi parchi cittadini, a partire dal parco Coletta, che è indiscutibilmente diventato, con una lunga serie di sforzi, un luogo aperto di condivisione dove sostare o giocare. Un luogo che si è risanato e oggi vede una nuova vita.
Ma qui? Perché la differenza tra un luogo complesso e di passaggio come quello del piazzale del Grattacielo (e tutte le storie che si porta dietro) rispetto ad un tranquillo parchetto poco frequentato è enorme. Infatti pochi giorni dopo i segnali che annunciavano l’avvio del lavori sono comparsi in tutte le porte dei condomini in zona dei fogli che invitavano a un ritrovo, il sabato successivo, per dire no alla recinzione. Quel sabato si ritroveranno circa una ventina di persone a chiedersi quale sia la necessità di chiudere, recintare, impedire di frequentare il parco in orari diversi da quello diurno canonico.
È nato anche un piccolo gruppo whataspp (al momento conta una ventina di membri, residenti in zona), ed è stata aperta una pagina Facebook. Sono comparse piccole notizie sui quotidiani locali, a presentare la voce di (alcuni, ovviamente, quelli che sono scesi nel parco) residenti che dicono: benissimo i lavori di miglioramento, ma la recinzione, il muro, la cancellata, a cosa servono?
Il cartello affisso recita nei suoi passaggi che:
esiste un desiderio di incrementare il livello di sicurezza, della necessità di una corretta frequentazione, che saranno immesse opere volte al contenimento, alla dissuasione o l’impedimento di atti vandalici.
Se andiamo ora a leggere un pò dei post sui social in reazione a questa semplice notizia si leggono molte cose. Piccole prese in giro, una generale derisione delle persone presenti, ricostruzioni politiche che lasciano intendere come il “no alla recinzione” sia un no all’amministrazione, qualche attacco del tipo e allora tenetevi il degrado.
Da fuori, per chi quel parco non lo percorre, diventa l’ennesimo muro contro muro, occasione di risentimento, e piccolo show da social dove le persone esprimono le loro tesi in maniera assolutista e partigiana. Come i tifosi di una squadra di calcio quando danno addosso all’arbitro che sembra decidere sempre contro la propria squadra. Va trovata una colpa e data un’opinione anche senza avere consapevolezza reale della situazione, che è chiara forse solo a chi ci abita tutto l’anno.
E in tutto questo non passa il centralissimo messaggio espresso dalle poche persone che c’erano realmente quel sabato: a cosa servirebbe di preciso chiudere tutto, quando qui problemi particolari non ne abbiamo?
Da dentro, in uno sforzo di raccontare la realtà per quella che è, di cosa si è parlato in quel piccolo raduno? Del fatto che ben vengano i lavori, i percorsi di passaggio ben segnalati, l’illuminazione migliorata, si spera anche la realizzazione di una area giochi o sportiva. Non recinti, chiusure e impedimenti. La risposta spontanea di quelle persone sta nel voler fare rete: immaginare dei picnic di ritrovo a dimostrare che non c’è nessuna emergenza da difendere, addirittura immaginare una festa estiva in stile Krasnopark fatta di canzoni e mangiate collettive.
Se la prima risposta naturale di un gruppo di persone che in sostanza non si conoscono, se non di vista, sta nella voglia di fare rete, coinvolgere, socializzare forse allora non è il desiderio di dire no a tutto, non è l’essere a favore di situazioni di degrado o criminalità, perché è naturale che dovrebbe essere nell’interesse di chi vive con un balcone che si affaccia sul parco, di chi lo frequenta per mezz’ora con i bambini sull’altalena quello di avere sicurezza.
Forse è invece il pensiero che si possa immaginare un percorso di apertura e coinvolgimento, per attrezzare le aree del parco e farle vivere, così come i lunghi tratti delle mura della città sono in gran parte tenuti al sicuro da chi corre, cammina, o fa sport. (Non è questa la sede dove parlare del problema dello spaccio sempre presente in alcune zone, ma sul tema più che guardare a chi la vende, bisognerebbe sempre pensare a chi la acquista, normalmente gli stessi cittadini ferraresi. Questo farebbe crollare il castello su cui si basa la convinzione che il degrado sta nell’offerta e non nella domanda).
Dunque quel piccolo movimento, quel modesto e informale comitato nasce spontaneamente semplicemente sulla base del percorso di democrazia e società che abbiamo scelto diversi decenni fa come nazione. Mentre sui social network impazzano le piccole polemiche e le retoriche di divisione, quel semplice annuncio ha portato persone che a malapena si conoscono ad unirsi per una causa comune, convinte che un cancello e un lucchetto non siano la risposta per migliorare le cose.
C’è già stata, per altri motivi, una città divisa da un muro, c’è stato già per altri motivi, il progetto di un muro a dividere Stati Uniti e Messico e sono tutti progetti che guardano alla sicurezza come domanda e alla divisione come risposta. E ci sono, è verissimo, molti grandi parchi pubblici delle città più grandi europee che hanno percorsi simili di tutela e chiusura notturna ma presentavano criticità ben diverse dalla piccola area verde di via Monti Perticari a Ferrara.
In questa società sempre più isolata, e legata alla scoperta del mondo attraverso notizie lette su un piccolo schermo, spesso la realtà è quella che si legge e non quella che si vive, anche a pochi metri da casa. Così viviamo tutti più impauriti, nonostante i numeri dicano, tanto per fare qualche esempio che ogni anno in Italia ci sono meno omicidi o meno incidenti stradali.
E così, semplicemente, lasciatevelo chiedere da quel gruppo di persone che da queste parti ci vivono, ci camminano, ci accompagnano l’amica, il cane o la figlia: ma una recinzione, qui Davvero?