Difficile definire una persona poliedrica come Stefano Bonazzi (1983) che negli anni si è confrontato con vari linguaggi artistici, dalla fotografia alla scrittura. Per i lettori di Filo più attenti tale nome non dovrebbe essere proprio sconosciuto: vi abbiamo già raccontato una parte del suo percorso cinque anni fa e Stefano compare tra gli autori dell’antologia The Ferrareser insieme a molti colleghi della nostra redazione.
Ultimamente, sta cercando di virare la sua energia creativa verso la dimensione narrativa. All’attivo ha già svariati racconti, e ha pubblicato tre libri: A bocca chiusa (Newton Compton, 2014), L’abbandonatrice (Fernandel, 2017) e Titanio (Polidoro, 2022). I vari riconoscimenti ottenuti recentemente – specialmente grazie al suo Titanio con cui ha vinto tra l’altro il premio letterario Grisù 451 – sono la ragione della sua prima presenza come autore al Salone del libro di Torino, e la conferma che forse sia la strada definitiva.
Visto che la parola è uno degli strumenti del suo lavoro, mi affido al suo bagaglio letterario e culturale per conoscere meglio il suo mondo.
Come si definisce Stefano Bonazzi?
Un timorato di tutto! Scherzi a parte, mi considero una sorta di autodidatta, che ha provato varie strade diverse, prima di trovare quella in cui si sente più a suo agio, ossia la scrittura. Ho iniziato con la fotografia, poi sono passato alla fotocomposizione, senza tralasciare il lavoro da grafico. Tutte mansioni creative, che sono state fondamentali per sperimentare e portarmi nel punto in cui mi trovo oggi. Però, fin da piccolo la lettura è sempre stata una costante, mi faceva sentire meno solo. Da ragazzino ero molto schivo, asociale e cinico, non ho mai avuto ampi gruppi di amici e quindi trascorrevo molto tempo da solo. Per cui, i libri sono stati fondamentali.
Cosa leggevi da piccolo e quali sono stati gli autori che ti hanno ‘convinto’ a confrontarti con la parola scritta?
Ho iniziato con Stephen King e ritengo che i suoi libri vadano oltre al genere horror e contengano molto di più: per esempio, utilizza la metafora del mostro per raccontare l’adolescenza, quindi per me è stato molto utile. Poi sono passato ad altri autori classici come Lovecraft o Poe. Mi piacevano autori che tiravano fuori il malsano della società e lo tramutavano in qualcosa di orrorifico, però sempre con un messaggio sociale. Ho avuto anche la sbandata per una serie di scrittori americani minimalisti, come Carver o McCarthy. Verso i 18 anni è arrivata l’infatuazione per i Cannibali italiani, che poi mi hanno formato.
Il termine “cannibali” fu un’etichetta attribuita dai media a una serie di scrittori dopo l’uscita della antologia Gioventù cannibale, pubblicata da Einaudi nel 1996. Giornalisti culturali e critici letterari accomunarono questi scrittori sotto il genere del noir e del pulp, per il crudo ed efferato realismo nei loro romanzi.
Probabilmente sono stati loro a darmi la spinta per provarci, li sentivo più vicino, anche geograficamente, visto che molti abitavano in Emilia-Romagna. Finché leggi un Carver sicuramente apprezzi e empatizzi, però rimane pur sempre un autore che vive dall’altra parte del mondo. Invece, quando leggi un libro di Gianluca Morozzi, che volendo puoi andare a trovare a Bologna, oppure di Simona Vinci, che ha la casetta non lontanissimo da qui, in qualche modo è diverso.
Cosa significa per te scrivere?
Per me la scrittura è essenzialmente uno sfogo, un modo di esprimere ciò che spesso non sono stato in grado di esternare, nemmeno con la terapia psicologica. La pagina bianca è lì, non puoi scappare e non ti giudica. E soprattutto, non necessariamente ciò che butti su carta dovrà essere pubblicato. Ho tantissimi testi che so che non saranno pubblicati, ma sono serviti per esorcizzare o metabolizzare alcuni episodi. Qualcuno corre per sfogarsi oppure prende a pugni un sacco da boxe, io prendo a pugni il foglio. Ho iniziato attorno ai vent’anni, quando attraversavo un periodo complesso, gran parte del tempo ero chiuso in casa per gli attacchi di panico. Siccome tutto mi faceva paura e avevo tempo, mi sono detto “è solo un foglio bianco, posso farcela”.
Ritieni che uno scrittore per essere definito tale, debba necessariamente scrivere? Per esempio, Fran Lebowitz è stata definita la scrittrice non scrivente più famosa dell’Occidente…
Non necessariamente sei uno scrittore solamente se hai pubblicato. Conosco amici scrittori che sono fermi da anni, eppure mi basta un loro audio, per capire che la vena letteraria c’è ancora. Puoi essere scrittore nel modo in cui esponi, la pubblicazione è una parte pratica, commerciale.
Ultimamente si parla molto del rischio per le persone creative di essere sostituite dall’intelligenza artificiale.
Per ciò che riguarda l’immagine, probabilmente ci sarà un uso sempre più massiccio dell’AI in campo prettamente commerciale, come sta già accadendo. Poi, certamente bisogna considerare la questione dei diritti d’autore. Per me, accadrà un po’ come con i vinili: non è che andranno a scomparire le immagini autoriali o scomparirà la fotografia analogica, si andrà a modificare il tutto. Un po’ com’è accaduto con il cinema quando è arrivato lo streaming… Per i testi sono meno spaventato, perché ho fatto delle prove pratiche e finché si tratta di scrittura commerciale le AI la cavano… possono fare degli articoli decenti, anche se si intravede l’impianto della macchina. Sulla scrittura creativa invece secondo me è ancora presto per dare un giudizio.
Ripercorriamo un po’ i tuoi romanzi e la loro genesi, partendo dal primo.
Quando ho iniziato, c’è stata una commistione di elementi che mi hanno indotto a provare, è stato un processo di elaborazione delle mie paure. A bocca chiusa è il primo romanzo ed è in parte autobiografico: si percepiscono alcuni punti irrisolti familiari, che poi andavano a manifestarsi in episodi di attacco di panico. La prima versione di A bocca chiusa, che conservo ancora con affetto, è stata scritta su un block notes di un albergo. Ho iniziato a buttare giù i miei pensieri, ed è nato proprio come un diario. Le prime pagine erano una narrazione per me stesso, da lì ho continuato fino ad arenarmi, quando la vicenda mi sembrava esaurita. Nel frattempo ho conosciuto Gianluca Morozzi che teneva alcuni corsi di scrittura a Bologna. Non sono riuscito a frequentarli però mi ha fornito alcuni spunti e in qualche modo sono riuscito ad arrivare alla conclusione del romanzo.
Il secondo romanzo, L’abbandonatrice, è invece un romanzo di formazione più maturo, che parla di responsabilità, problematiche relazionali, fragilità e disagi esistenziali. Titanio infine è un romanzo corale, affidato a tre voci diverse che raccontano il terribile, il male, in tutte le sue sfumature.
Come si può definire il tuo genere e come si è evoluto?
Finora ho fatto un percorso circolare e potrei definire i miei libri come dei noir dell’anima. Il collante è la paura, estensione dalla mia individuale presente nel primo romanzo che diventa collettiva nell’ultimo libro. Un aspetto che è mutato nel tempo è la presenza della mia voce, cioè un lato autobiografico presente in A bocca chiusa e quasi del tutto sparito in Titanio. La circolarità di cui accennavo inizialmente è riferita anche al contesto: sono partito da luoghi decontestualizzati, come la periferia o la casa, ho incluso nel secondo posti ben circoscritti come Bologna e il DAMS, per ritornare nell’ultimo alla periferia generica.
Cosa hanno in comune i tuoi personaggi a parte la paura?
Hanno tutti degli irrisolti familiari, si sentono profondamente incompleti, cercano di trovare alcuni tasselli mancanti in qualcos’altro: nella fantasia, nell’amicizia, nell’amore.
Una volta ultimato il libro, senti la loro mancanza?
Mi mancano soltanto i protagonisti de L’abbandonatrice, gli altri no. Anzi, con Fran, protagonista di Titanio, non ho proprio empatizzato. Compie delle scelte che non avrei fatto personalmente e ha delle debolezze che comprendo, ma che oggi per come sono diventato mi irritano.
Tra scrittura e presentazioni, come fai a trovare il tempo per conciliare questa passione con il lavoro?
Il segreto è dormire poco! In realtà, sono una persona molto metodica, deriva molto dal mio lavoro, mi impongo di seguire un piano ben strutturato. Inoltre sono spinto dal desiderio di far parte di un contesto stimolante e dare nel mio piccolo un contributo.
Ferrara ha avuto un impatto sulla tua scrittura?
Quando ho iniziato a scrivere percepivo Ferrara come una piccola prigione, sarà per le sue mura sarà per questo modo dei ferraresi un po’ schivo, chiuso. Ma forse, era per il modo in cui mi ponevo io, il primo a essere chiuso, asociale. Fondamentalmente, la vivevo come un limite e vedevo più Bologna come la mia città ideale. Oggi, che sono passati ormai vent’anni da quella concezione, ho una visione diversa: secondo me Ferrara è vivibilissima. Puoi portare avanti i tuoi sogni, devi semplicemente capire che non è una vetrina come quella che può essere Milano, ma che non necessariamente significa accontentarsi.