“Era un altro mondo, e per l’arte contemporanea un deserto. Ferrara, con Farina, fu un’oasi.”
Vittorio sgarbi
Non deve essere stato facile essere Franco Farina, figura che nella nostra città ha via via assunto i contorni del Mito. Mitica è in effetti stata la sua esperienza come Direttore delle Gallerie d’Arte Moderna di Ferrara per trent’anni esatti fino al 1993, un’epopea unica e oggi irripetibile. Nemmeno i Papi negli ultimi tempi durano così a lungo, figuriamoci i Direttori. Non deve essere stato facile organizzare oltre mille mostre a Palazzo dei Diamanti e negli altri spazi dedicati all’arte contemporanea, e soprattutto dare una direzione internazionale ad un luogo che fino ad allora produceva cultura per una piccola città di provincia.
Me lo immagino tirato per la giacchetta da chiunque, invitato in ogni dove, fermato per scambiare due chiacchiere da ammiratori così come da piccoli artisti emergenti, colleghi, persone che gli chiedevano cose. Dev’essere qualcosa che viene a noia ad un certo punto quando si è popolari, una seccatura inevitabile e quotidiana: io lo conobbi circa quindici anni fa, quando ormai in pensione non mancava comunque mai l’inaugurazione di piccole e grandi mostre in città. Me lo presentarono e mi strinse la mano dedicandomi giustamente i 15-20 secondi che mi spettavano, ma per via della mia amicizia ormai di lunga data con la famiglia Bonora ho avuto modo di conoscerlo molto più di quanto il suo essere garbato e silenzioso degli ultimi anni avrebbero consentito.
Oggi che anche l’altra metà della sua vita Lola Bonora è costretta ad una presenza-assenza e ad un silenzio dalla scena pubblica che mai avrebbe desiderato, si torna a parlare del Maestro perché una targa scoperta ieri lo commemora per sempre nel loggiato del suo Palazzo dei Diamanti. Dice:
Ai Diamanti
Franco Farina
portò l’arte contemporanea.
1963-1993
Che è una frase sintetica, verissima, immediatamente universale. Illuminante quasi. Ringrazieremo per sempre chi ha portato l’acqua al villaggio, chi ha costruito la ferrovia, chi ha collegato il telefono la prima volta. Farina portò l’arte tra le nostre campagne, ci raccontò per primo l’America mentre tutti guardavamo ancora a Parigi. Ci disse attenzione, laggiù sta succedendo questo ed è estremamente interessante, guardiamo oltre il nostro naso?
Da oggi è disponibile un volume edito da Ferrara Arte che racconta quell’epoca così stimolante e iconica per chi opera nel mondo dell’arte: “Cerchiare il quadrato”. Un titolo curioso che sicuro Farina avrebbe apprezzato nella sua ironia, per raccontare quel progetto culturale che rese Palazzo dei Diamanti un luogo per l’arte tra i più fecondi in Italia e nel mondo. Libro che si interroga persino se quel progetto ci fosse davvero o fosse semplicemente fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Il Genio insomma, per chi ricorda la citazione.
Il volume a cura di Chiara Vorrasi, Ada Patrizia Fiorillo e Massimo Marchetti è un’impalcatura critica per collocare in prospettiva gli eventi di un trentennio, ma anche le tante opere che la Collezione Farina ha lasciato proprio alla città e che sono state in parte esposte al PAC alla fine del 2019.
Nella prima parte del libro trovano spazio le testimonianze delle personalità che a vario titolo hanno avuto a che fare con lui, nomi di spicco della cultura del tempo. Tra i tanti: Marina Abramović, Maurizio Bonora, Fernanda Fedi, Giuliano Giuman, Ugo La Pietra, Federica Marangoni, Elio Marchegiani, e storici dell’arte o critici, come Renato Barilli, Claudio Cerritelli, Bruno D’Amore, Giorgio Di Genova, Marilena Pasquali e Vittorio Sgarbi.
Nella seconda parte dal titolo “Un museo, una città, un progetto”, oltre all’apporto dei curatori sono invece intervenuti accademici e storici dell’arte di diverse generazioni, per esplorare gli assi portanti del progetto Farina, la sua metodologia organizzativa e il sistema di relazioni su cui poggiava.
Un volume che evidenzia dunque la capacità di Farina di intercettare le tendenze che si andavano affermando oltreoceano, dall’informale all’action painting fino alla pop art, senza dimenticare la scuola ferrarese di cui pure è stato profondo conoscitore e promotore. Dal cognato Maurizio Bonora, a Gianni Guidi, Sergio Zanni, Gianfranco Goberti e tanti altri, sono numerosi gli artisti locali che hanno goduto del suo supporto per uscire dalle mura cittadine e farsi conoscere. Massimo Marchetti nel libro racconta di come Farina si fosse posto l’obiettivo di non essere troppo campanilistico nella scelta degli artisti, in modo scientifico e rigoroso: una mostra di un ferrarese ogni 12 tra italiani o stranieri. Andando a fare i conti a fine carriera Marchetti si è accorto che non solo ci è riuscito, ma che il rapporto è stato in realtà di un ferrarese ogni 14. Sempre parlando di Ferrara altre due esperienze sono state uniche ed irripetibili nei suoi anni: il Centro Video Arte guidato da Lola Bonora e Carlo Ansaloni e il Museo della Metafisica, poi smantellato, capaci di animare la vita culturale cittadina rendendola davvero aperta al mondo.
Perché l’unicità di Franco Farina è stata anche quella di essere aperto a tutte le correnti artistiche, dalle più sperimentali a quelle più tradizionali, a differenza di certe direzioni del passato che avevano dato a musei analoghi una linea modellata del tutto sui gusti di chi stava alla guida. L’arte è un linguaggio capace di educare e raccontare un po’ del mondo agli abitanti di Ferrara, così come ai suoi artisti: un modo per viaggiare senza farlo fisicamente, in tempi in cui un volo aereo non era alla portata di tutti. Farina svolgeva insomma un servizio pubblico nel senso più alto del termine, perché una mostra fosse opportunità di crescita sociale e culturale, utile anche a consolidare un pubblico italiano per l’arte contemporanea.
Per tutte queste ragioni forse è giusto mitizzare la sua figura ed è bello che tra collezioni, mostre, libri e targhe ne venga tenuta viva la memoria. Un giorno il Maestro disse: “Se sparisse il Castello i ferraresi se ne accorgerebbero solo perché mancherebbe l’ombra”. Di Franco più che dell’ombra ci mancano tanto il riflesso e la prospettiva, chissà che un libro non sia d’ispirazione per qualcuno un domani.