Sergio Zanni: vita di un narratore padano
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Sergio Zanni: vita di un narratore padano

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Da dove iniziamo? Potrei raccontare qualche episodio della mia infanzia…

Esordisce così Sergio Zanni durante il nostro incontro nel suo meraviglioso studio d’artista, colmo di storia, vissuto e arte, una vera e propria officina nascosta nel silenzio del centro storico, tra foto appese alle pareti, colori, sculture, appunti e attrezzi di ogni tipo. L’artista ferrarese, che preferisce definirsi un narratore padano piuttosto che un surrealista padano, è prossimo a celebrare i suoi 81 anni, e di momenti da ricordare ne ha tanti: di lui abbiamo già parlato alcune volte sulle pagine di FILO Magazine, in occasione di mostre personali e collettive, ma abbiamo deciso di raccontare la sua poetica ripercorrendo una lunga carriera di successi. Attraverso la sua arte e servendosi di creta, terracotta, bronzo, carboncino, acquerello ha reso visibile un immaginario ricco e complesso, abitato da viandanti, equilibristi, eremiti, osservatori e molteplici altre figure. 

Stravolgo dunque la mia scaletta mentale, lascio perdere i miei appunti e mi lascio trasportare ondeggiando sull’altalena mnemonica di Zanni. Niente domande, niente intervista canonica: saranno le parole dell’artista le uniche protagoniste di questo viaggio.

foto di Eugenio ciccone

Sono nato in un’epoca non tanto felice, nel maggio del 1942. Quando cominciarono a bombardare Ferrara, la mia famiglia decise di trasferirsi in campagna, da alcuni parenti a Casumaro, dove era nata mia madre. Era una situazione che accomunava tantissime altre famiglie, sfollate come noi. La campagna a quei tempi era una realtà quasi ferma all’Ottocento: i bambini giravano scalzi e si sentivano in soggezione rispetto a quelli che arrivavano dalla città. Per me, tale esperienza è stata molto importante e soltanto col tempo sono riuscito a elaborare alcuni momenti, archiviati nell’inconscio, grazie fondamentalmente alla mia arte. 

Finita la guerra siamo tornati in una città piena di macerie, che per un bambino costituiva un meraviglioso campo da giochi. Ricordo che andavamo per bande e tra noi ragazzini giocavamo a ‘far la guerra’, perché nell’aria c’era ancora quel clima. Spesso si andava verso la stazione, che era un campo verde, ideale per lasciare andare la fantasia. Fu all’incirca in quel periodo che mi sono avvicinato al linguaggio del disegno grazie al fratello di mia mamma, lo zio Gabriele, che era convinto io fossi portato. Probabilmente la dislessia che mi ha accompagnato fin dalle elementari, ha influito sulla necessità di usare un altro linguaggio.

foto di Eugenio ciccone

Il disegno è stato la mia salvezza durante gran parte del periodo scolastico, che per me è stato difficile, una vera odissea. Ho alternato fasi in cui ero molto timido, mi sentivo a disagio e non riuscivo a legare con i miei compagni a periodi in cui ero più attivo, arrivando persino a fare a botte. Però, il disegno è sempre stato una costante. Le ultime pagine dei miei quaderni erano riempite di disegni, per me era un esercizio continuo e nella maggioranza dei casi copiavo. Ad esempio apprezzavo molto le illustrazioni di Walter Molino (1915-1997, fumettista e pittore, ndA).

Finalmente, dopo tante suppliche e svariati tentativi in diverse scuole – dalla scuola commerciale al Conservatorio – sono approdato al Dosso Dossi e tra quelle mura mi sono sentito a mio agio, finalmente a casa.

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Ultimate le superiori, ho deciso di iscrivermi all’Accademia di Belli Arti di Bologna: inizialmente al corso di scenografia, per cambiare in seguito e diplomarmi in scultura. Il mio professore era Umberto Mastroianni (1910-1998), un caposcuola della scultura moderna, che era solito stroncare le opere degli studenti ma apprezzava ciò che realizzavo.

foto di Eugenio ciccone

A 17 anni, insieme a un mio compagno di scuola Gianni Guidi, abbiamo iniziato a lavorare in uno studio tutto nostro, e poco dopo, con Maurizio Bonora, Gianfranco Goberti e Guidi per l’appunto, abbiamo dato vita al Gruppo 4. Era un’unione di forze, con l’intento di esporre il nostro lavoro e organizzare insieme delle mostre sul territorio. Che poi dei quattro il vero organizzatore e programmatore era Bonora… Abbiamo partecipato a numerose mostre, anche fuori Ferrara: all’epoca erano le amministrazioni locali ad invitarci, gli artisti emergenti erano maggiormente sostenuti rispetto a oggi…

La prima mostra agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso me la ricordo bene, partecipai con un quadro soltanto: era una collettiva al Chiostro di San Romano e vinsi il terzo premio. Devo confessare che per me mettere un colore invece di un altro non era molto importante. Non ero interessato alla ricerca sul colore quanto più a quella sulla forma. Gradualmente mi sono infatti allontanato dalla pittura per concentrarmi quasi completamente sulla scultura.

Ho iniziato a fare delle sculture in terracotta, e finivo per fare sempre queste figure antropomorfe un po’ meccaniche, un po’ mostruose… volevo fare cose drammatiche. Trovo molto emozionante lavorare la terracotta, plasmare le figure come se fossero degli esseri viventi, come se fossero figli. Ovviamente non ho mai abbandonato completamente il disegno, però da allora ho continuato principalmente con  la scultura.

foto di Eugenio ciccone

Durante quel periodo e subito dopo l’Accademia, la mia arte la si potrebbe inserire nella categoria del Futurismo, però al negativo: facevo dei quadri astratti e antropomorfi, una specie di futurismo ribaltato. Mentre la corrente di Marinetti esaltava la velocità e l’ottimismo, io avevo un pensiero negativo, una sorta di intuizione, o pessimismo se vogliamo, sull’essere umano: si stava andando verso un mondo dove l’elemento umano veniva a decadere.

foto di Eugenio ciccone

La mia prima mostra personale si è tenuta in una galleria pubblica, adiacente a Palazzo dei Diamanti, che agli inizi degli anni Settanta era gestito da Franco Farina. La mostra era composta da tante sculture, figure un po’ perturbanti con la testa staccata dal corpo. Era una manifestazione di un disagio espresso nelle forme e nelle sue trasformazioni. Per me l’arte ha sempre rappresentato un modo per difendermi dai disagi, anche familiari. Una vita serena non porta purtroppo a creare molto, per farlo bisogna passare attraverso le ferite dell’esistenza umana. Probabilmente, le situazioni ‘critiche’ che si affrontano sono da considerarsi terreno fertile per diventare davvero creativi.

Vorrei soffermarmi un attimo anche sul linguaggio della scultura. Per me è una questione di forme e volumi, per questo nel mio percorso artistico ho fatto spesso riferimento a figure greche oppure orientaleggianti. Considero che l’avvicinamento a queste due dimensioni sia legato al bisogno di rimanere fedeli alla propria identità, usandoli come riferimenti concettuali e non come rimandi a elementi concreti. La figura dell’equilibrista che spesso si ritrova nella mia poetica denota molto bene tale idea: è la sintesi del concetto di armonia per i greci, perché la bellezza nasce da un equilibrio, e dall’armonia di più fattori.

foto di Eugenio ciccone

In ogni caso il mio lavoro è principalmente autobiografico e dedicato alla ricerca sulla figura umana. Ho inventato personaggi che fossero metafore della mia vita, uno su tutti è il viandante. Personalmente non ho viaggiato molto, se escludiamo la parentesi di quattro mesi passati a Roma come aiuto scenografo e pittore di scena per il film Giulietta degli spiriti di Federico Fellini. Sono sempre rimasto a Ferrara senza sentire particolari necessità di spostarmi, in fondo l’ho fatto un po’ tramite la mia arte.

Il viandante è stata dunque una elaborazione, non semplice, di tale aspetto. Tale figura non va intesa come un semplice viaggiatore, ma come qualcuno che vive un viaggio: non c’è un arrivo e una partenza, il viaggio in sé per me è la metafora della vita. Nasce durante una mia mostra personale negli Anni ‘90, quando ancora non mi era chiaro il suo significato: è arrivato come spesso accade dopo, come elaborazione di una componente inconscia.

foto di Eugenio ciccone

Un altro personaggio ricorrente nei miei lavori è il kamikaze: è un rimando alla mia infanzia, quando andavo al cinema e trasmettevano soltanto documentari sulla guerra. Uno di questi raccontava la storia di un kamikaze giapponese durante il secondo conflitto mondiale e mi impressionò molto soprattutto il concetto di paura, ben diverso dalla nostra visione occidentale.

Il desiderio di introdurre nuove figure, spesso di grandi dimensioni, per me ha coinciso con la necessità di provare elementi diversi, anche più pratici da produrre rispetto alla terracotta. Per esempio, grazie alla sperimentazione di altri materiali, sono riuscito a realizzare Foto di gruppo, un complesso scultoreo di sei figure in polistirolo, donato alla città di Ferrara nel 2022 e attualmente esposto nel Salone d’Onore del Palazzo Municipale.

foto di gruppo, 2004

Per chiudere questo personale amarcord, vorrei poi ricordare la mia partecipazione alla 54° Biennale di Venezia del 2011, dove ho presentato una variante dell’opera La ruota del tempo. Le mie sculture vogliono significare anche un tempo che è alla fine, che in parte viviamo ma per lo più sta alle nostre spalle. Come un cerchio, la cui misura dà riposo alla figura umana: si parla tanto di “mettere al centro l’uomo”, ma non ci rendiamo conto che quella centralità purtroppo è persa.

foto di Eugenio ciccone

Sarebbe superfluo aggiungere altro ai ricordi di Sergio Zanni riportati qui sopra. Tuttavia, vorrei concludere questo frammento narrativo, con una breve considerazione. La sua arte evoca una forza immaginifica immensa e impareggiabile, in grado di catapultarci in altri mondi e vivere tanti piccoli sogni. Le sue figure oltrepassano la soglia del quotidiano, per aleggiare nella dimensione del simbolico e del mistero, che spero di poter presto apprezzare in qualche mostra futura.

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