Caro Don Domenico Bedin,
venerdì sera non ho ceduto alle lusinghe della serata cover di Sanremo e sono venuta al Cohousing Solidaria di San Giorgio a sentirti raccontare per la prima volta di te stesso. Quello che ho sentito mi ha sorpreso.
Vocazione? Non ci hai parlato di una “Chiamata fortissima del Signore” o di uno “Spirito celeste che scende dal Cielo e ti folgora”, come immaginiamo spesso noi laici. Tuo padre ti ha iscritto al Seminario perché facevi fatica a studiare, anzi proprio non ne volevi sapere e quello era l’unico modo per farti avere il diploma. Ti piaceva l‘ambiente del seminario, ma ti piaceva di più una ragazzina con cui avevi scambiato qualche bacio innocente. Da giovane eri un gran bel ragazzo, alto, muscoloso e simpatico: te lo dicevano tutti ma sembrava che non te ne rendessi conto, così come non ti rendevi conto di essere bravissimo a sciare anche quando hai vinto la gara riservata ai seminaristi dal buffo titolo “Il Signore scia con voi”.
L’unica cosa di cui ti rendevi conto era che, piano piano, eri sempre più convinto della tua vocazione ed eri affascinato dalla bontà e saggezza dei sacerdoti che si prendevano cura di voi ragazzini, fino al punto di desiderare di diventare uno di loro. A volte ti frullava nella testa la frase che avevi sentito a catechismo “non rubare la giusta mercede agli operai”, dopo avere scoperto che c’entrava con la vita di tuo padre, che faceva il mezzadro. È stato allora che hai pensato come colto da un lampo improvviso che la catechesi, la dottrina, il vangelo, sono cose importanti, reali, concrete, non rispostine vuote da imparare a memoria. Una semplice scoperta che ti ha segnato e spinto a laurearti in Teologia a Roma.
Hai chiarito subito la tua posizione nei confronti della Chiesa e hai ribadito più volte l’importanza del restare celibi anche se tu non sei riuscito a rispettarla. Perché siamo esseri umani, non è una giustificazione ma un dato di fatto. Sei ancora un sacerdote, puoi dire Messa, il Vescovo ha capito le tue debolezze e ti ha lasciato continuare a lavorare per il bene della comunità. È tutto scritto negli Atti pubblici diocesani, niente di segreto.
Incalzato dal bravo Alessandro Tagliati che leggeva qualche brano dei racconti del tuo libro Viandanti, hai poi ricordato gli anni ’70, quando frequentavi il Gruppo 175 di corso Giovecca, nato per affrontare il pesante problema della droga a Ferrara e di quanto quegli incontri ti abbiano marchiato spingendoti ad aiutare le sofferenze degli ultimi, a fondare VialeK, ad accogliere tossicodipendenti, immigrati e ora gli ex detenuti con cui convivi a Pratolungo di Cona.
La gioia, la gentilezza e la disponibilità che hai elargito a piene mani, come hanno testimoniato alcune delle persone presenti imbarazzandoti, svelano che sei una persona autentica, che vede la speranza in ogni persona.
Ecco spiegato in poche parole perché l’altra sera sono rimasta incantata nell’aprire un forziere così ricco e nascosto. Grazie.