Da ieri, 19 gennaio 2023, è online su Amazon Prime Video “Lamborghini – The Man Behind the Legend”, biopic che ripercorre la vita dell’imprenditore di Renazzo attraverso tre fasi della sua vita privata e lavorativa. È una pellicola che ha avuto una gestazione lunga per via della pandemia: i primi ciak nel 2018 a Cento, poi una pausa e la ripresa nel 2021, con un casting che ha incluso almeno nelle scene di massa anche cittadini ferraresi. Sebbene sia importante che esista finalmente un film che narri le gesta di questo emiliano visionario, forse non è il tipo di opera che ci aspettavamo come pubblico italiano, sicuramente il risultato non è all’altezza di quel genio perfezionista che era Ferruccio Lamborghini.
Il film è diretto dal premio Oscar Bobby Moresco (Crash, Million Dollar Baby), ad interpretare Lamborghini da giovane è Romano Reggiani, poi Frank Grillo nella seconda metà del film, mentre Gabriel Byrne veste i panni del nemico di sempre Enzo Ferrari. In un primo momento erano invece circolati i nomi dei più blasonati Antonio Banderas ed Alec Baldwin.
Le vicende attingono, seppure in modo romanzato, dal libro Ferruccio Lamborghini, la storia ufficiale, scritto nel 2016 dal figlio Tonino. La fotografia è molto patinata, costumi e scenografie accurate e ricercate ma il tutto è confezionato in modo estremamente americano per essere un film che parla di un angolo di Emilia. Questo è il suo limite più evidente, con una sensazione che strania sicuramente lo spettatore italiano man mano che si prosegue nella visione dei tre frammenti di vita messi in scena, anche dal punto di vista della sceneggiatura non molto amalgamati tra di loro.
I personaggi seguono lo stereotipo dell’italiano Anni ’50 per come ci vedono in America, gli attori (che recitano naturalmente in inglese essendo una produzione USA) sono stati inspiegabilmente doppiati con un accento neutro, talvolta con leggera inflessione romanesca, sicuramente lontana dalla cadenza tipica emiliana. Per non parlare della totale assenza di gestualità, spessore, approfondimento sui personaggi che si limitano ad intervenire nella storia in modo un po’ sbrigativo. Lo stesso film indugia molto sulla vita privata di Lamborghini semplificando molto la sua ascesa dal mondo dei trattori a quello delle auto Gran Turismo. Ne esce un Ferruccio perfino dandy in alcuni tratti, del tutto divo hollywoodiano quando affascina una giovane donna durante un concerto di Tony Renis (la colonna sonora, altro cliché), o quando a tavola nel suo lussuoso casale mangia con il figlio piatti striminziti, salutari ed improbabili per un emiliano verace come lui.
A mancare è proprio la nostra terra, manca il guizzo dell’uomo che viene dalla campagna e si è fatto da solo, la spontaneità di un personaggio che è entrato nel mito dell’imprenditoria italiana con ambizioni e rigore di chi aveva le idee chiare fin dall’inizio, pur non avendo i mezzi. Persino il Drake Ferrari è ritratto in modo caricaturale come una nemesi con il quale non è possibile alcun dialogo ma solo competizione agguerrita e irrispettosa, come nella scena che ricorre più volte dove i due anziani costruttori si sfidano in strada con i rispettivi bolidi: sogno ad occhi aperti di un Ferruccio ormai disilluso e a fine carriera, molti anni dopo aver ceduto l’azienda.
Non mancano anche piccole imprecisioni tecniche che forse gli amanti delle quattro ruote coglieranno: in officina si scambiano i cavalli di un motore con la sua cilindrata e nelle scene che portano alla gestazione della mitica Lamborghini Miura i nomi del designer Marcello Gandini o dell’Ing. Paolo Stanzani sono del tutto omessi dalla narrazione pur essendo gli ideatori di quel modello. Forse sarebbe stato bello includere nella storia anche gli anni del successo dopo il Salone di Ginevra del 1964, anni che portarono alla creazione di altri modelli entrati nella storia come la Countach (la prima commercializzata dopo l’abbandono aziendale di Lamborghini).
Un film su Ferruccio Lamborghini meritava insomma una produzione nostrana, uno sguardo più rispettoso delle nostre tradizioni e del nostro cinema, anche per dare maggiore profondità e credibilità al personaggio. Forse per l’idea di Italia che hanno oltreoceano andrà benissimo: il mito dell’auto veloce, delle belle donne e dei crooner con il gel nei capelli sono uno spaccato perfetto e idealizzato del nostro Dopoguerra. Dove tutto il Belpaese è paese, dove non importa più che sia Emilia, Veneto o basso Lazio, tutti mangiamo la pizza, abbiamo i baffi e ci chiamiamo Mario.
Forse l’idea di fondo era solo quella di rendere omaggio all’uomo che ha creato un impero delle auto da corsa, sfidando il monopolio Ferrari nella sua stessa terra. Ma quella terra è la chiave di lettura di tutto, è la base su cui muovere la narrazione di questa e altre storie che da qui sono partite e che forse è bene che qui ritornino per essere conservate, narrate e tramandate nei decenni nel modo giusto.