Arlen Bitterbuck: Pensa che se un uomo si pente veramente degli errori che ha commesso, può ottenere di tornare al tempo più felice per lui, per poterci vivere per sempre? Può essere così il paradiso?
da “il miglio verde”
Paul: Più o meno è così che l’ho sempre immaginato.
È stato presentato il 5 di dicembre all’istituto Vergani “La scuola come scelta” documentario di Alejandro Ventura, girato nel maggio del 2022, per raccontare l’esperienza della scuola nel carcere di Ferrara, un percorso che pare quanto di più aderente all’articolo 27 di quella che normalmente ci piace considerare la più bella costituzione mai scritta, ovvero quella italiana: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Nel carcere di Ferrara il progetto è da diversi anni gestito dal CPIA che con questo progetto ha voluto raccontare l’importanza di poter dare diritto di parola e pensiero a chi sta scontando una pena o attendendo un giudizio.
Ne abbiamo parlato con Marzia Marchi, docente Cpia e referente comunicazione del progetto.
Prima di addentrarci nel documentario, qual è il contesto della scuola nel carcere di Ferrara? Quanti docenti e detenuti coinvolge e da quanti anni?
La scuola in carcere c’è da sempre, in quanto prevista dalla costituzione. Da diversi anni è gestita dal CPIA: parliamo di una scuola che va dalla primaria a tutto il ciclo della scuola dell’obbligo, quindi fino al primo biennio delle superiori. Dopo quel momento in carcere entrano gli istituti professionali, attualmente ad esempio l’istituto Vergani protagonista di questo documentario, che porta avanti la formazione con il terzo, il quarto e il quinto anno delle superiori. Esiste una forte connessione tra il CPIA e l’istituto professionale, con un lavoro coordinato che ci consente di mantenere la continuità tra i percorsi. La scuola al momento coinvolge circa venti persone a cui si aggiunge il fatto che esistono detenuti che iniziano il percorso in carcere e poi lo terminano fuori, essendo nel frattempo usciti di prigione, mentre il numero di docenti coinvolti è intorno ai dodici.
Per quanto riguarda la scuola primaria si è man mano trasformata in un corso di italiano e di alfabetizzazione di base. Questo perché esiste l’esigenza di alfabetizzare gli stranieri che si trovano sempre più frequentemente ad essere una maggioranza in carcere.
Il documentario racconta molta speranza: le persone parlano delle grandi possibilità che gli vengono aperte dall’imparare la lingua, le nozioni scolastiche e anche quelle più professionalizzanti. Non c’è il rischio che una volta uscite le persone rimangano deluse se non riescono a reinserirsi e tornino quindi a commettere reati?
Noi come CPIA abbiamo prettamente una funzione giuridica, ma dentro il carcere collaboriamo attivamente con gli educatori che hanno proprio questa funzione di connettere l’istruzione con tutte le altre attività che vengono fatte, alcune delle quali sono l’orientamento del post carcere. Ed esistono anche dei corsi di formazione professionale, come il corso per diventare barbieri, meccanici, che vengono svolti in parte in carcere in parte all’esterno, per preparare le persone una volta che siano uscite. Questa parte è maggiormente in carico a diverse associazioni e enti di volontariato ma la nostra esperienza ci porta a dire che una volta che questi detenuti hanno acquisito la lingua italiana e che hanno un titolo di studio a livello sociale tutti i percorsi di uscita dal carcere diventano in discesa.
Nella parte iniziale del video lei racconta il salto dall’insegnamento per vent’anni in una scuola primaria a questo che è molto diverso: che impatto c’è stato all’inizio? Il documentario sembra quasi raccontare come la scuola in carcere sia più un percorso umano di integrazione: cosa restituisce a livello umano?
La differenza è tanta. Passare dai piccoli nella fase dell’apprendimento è mettersi a confronto con l’entusiasmo dell’apprendimento, in particolare appunto nella scuola primaria. La scoperta dell’apprendimento è un gioco, una gioia, pur nelle sue difficoltà. Invece l’impatto del carcere è piuttosto forte: entrare all’interno è difficile per il contesto, oltre che per le persone. Bisogna adeguarsi, assumere una serie di atteggiamenti che si imparano solo con l’esperienza.
Con gli adulti in carcere è tutto diverso: io lo chiamo un secondo incanto. Soprattutto nel caso della lingua, come nel mio caso, quando vedono il risultato immediato, imparano a leggere, scrivere, sono persone che escono con delle parole, parole che prima non potevano usare, si rendono conto che hanno imparato qualcosa di importante.
Quello che bisogna imparare a gestire è il rapporto con persone prive della loro libertà: in questo senso molto del video è nel rapporto tra dentro e fuori, perché fino a quando una persona non entra in contatto con la realtà carceraria percepisce l’esistenza di un mondo fuori e uno dentro dalla prigione. Per le persone normalmente il carcere non esiste, nessuno si pone il problema di entrarci. Quando si entra dentro per lavoro o con esperienze di volontariato comincia a svilupparsi una quotidianità e cadono delle barriere mentali, inizi a interrogarti su molti aspetti.
Tutti gli insegnanti che entrano magari per la prima volta nel percorso (e succede frequentemente, proprio come ogni anno si ruota nelle scuole) arrivano a dire che cade la questa barriera che divide dentro e fuori. Dopo qualche settimana o mese si ragiona in termini di persone, aspettative, speranze. Non è che non si percepisca più la differenza quando si varcano i numerosi cancelli, ma mentalmente questa barriera salta e ci si inizia a fare tante domande.
Si inizia a pensare: non è cosi difficile finire in carcere, ci sono tanti motivi per cui può succedere, conoscendo le storie delle persone si capisce quanto sia possibile entrare in carcere per una situazione o un errore.
Esiste tra l’altro il tema della condanna definitiva: in Italia, con una percentuale maggiore rispetto ad altri paesi, circa un terzo delle persone detenute non ha ancora attraversato tutti i gradi di giudizio.
Esattamente: il carcere di Ferrara è una casa circondariale, tante persone sono in attesa di giudizio, esiste anche una estrema variabilità di studenti, le persone entrano, poi escono dal percorso perché magari sono state assolte o hanno concluso la loro pena, capita purtroppo anche di ritrovarle più avanti negli anni se rientrano e una eventuale recidiva è molto triste. In Italia abbiamo il settanta per cento di recidive, e se questo percorso in carcere viene fatto male, se uno ritorna dentro allora il periodo in carcere non ha avuto nessuna utilità. Perché noi ci impegniamo tanto a dare degli strumenti? Perché queste persone non ritornino più.
Molti dei detenuti nel video dicono: con la scuola mi viene data la possibilità di esprimermi, oltre il percorso scolastico c’è quello umano.
Si, assolutamente è una cosa molto forte. La maggioranza sono persone straniere (ma non solo) oltre agli italiani che non hanno avuto la possibilità di avere un percorso scolastico. Succede anche di avere persone già diplomate che si iscrivono e frequentano ugualmente perché diventa un contesto culturale, un luogo dove ci si scambia le informazioni, in un percorso che si mescola con le attività di formazione, di teatro, barberia, cucina. L’istruzione è la chiave che apre delle altre porte, se hai una conoscenza linguistica, una capacità di scrivere e comprendere questa ti consente di iscriverti alle altre attività. Il lavoro che noi facciamo è l’apertura per tutto il resto. Si fa fatica a volte a coordinare questo percorso: i tempi che hanno i carcerati sono ristretti, ci sono solo alcune ore e in quelle ore c’è tutta l’offerta formativa: io ho uno studente che in una giornata avrebbe contemporaneamente l’ora di scuola e quella di sport e lui sceglie la seconda, con enorme dispiacere perché sente il bisogno di muoversi. Quando siamo fuori tendiamo a dire: quelle persone hanno fatto degli errori, problema chiuso. Invece le possibilità di recupero ci sono e tutto quello che si fa dentro al carcere è la chiave per aprire la porta giusta per quello che queste persone faranno poi.
E qui torniamo alla prima domanda, a quel rischio di trovare una “delusione” una volta usciti, dopo aver messo in campo un proprio cambiamento.
Posso dire che noi seguiamo le persone: ad esempio già due dei protagonisti del documentario sono usciti nei mesi successivi. Teniamo i contatti attraverso le educatrici, sappiamo dove sono, cosa stanno facendo. Il tempo della scuola è importante comunque anche mentre sei dentro: è un tempo di distacco dai tuoi pensieri e problemi, di lettura, di pensiero… accedi a delle cose che altrimenti non potresti avere, tutto quello che si ha in quel momento è utile e resta utile dopo.
C’è anche chi ci dice: passa il tempo meglio, con la scuola in carcere. Ci sono tantissime depressioni, situazioni di forte disagio mentale. E quel tempo, che passa meglio, ha anche una utilità, una resa, per quanto poi dipenda anche da tante condizioni il poter usare o meno quella conoscenza.
Realizzato nel maggio del 2022, dal regista/image-maker Alejandro Ventura su progetto CPIA, “La scuola come scelta” è un corto che illustra la scuola in carcere, che a Ferrara è gestita dal CPIA (Centro per l’istruzione degli adulti) e dall’Istituto alberghiero O. Vergani.
Per avere informazioni e per proporre la visione del documentario in scuole o associazioni: Marzia Marchi marzia.marchi@cpiaferrara.edu.it