Questo è il racconto di un’appassionante avventura che ho potuto vivere grazie a uno di quegli inaspettati incontri virtuali, resi possibili dal potere del web di annullare le distanze. Da Ferrara al deserto iracheno, tra Baghdad e Mosul, in questo caso.
Dal cuore di quella che era l’antica Mesopotamia, sulle antiche vie carovaniere della seta che collegavano l’Oriente con l’Europa, da quella che due millenni fa era un’importante città fortificata, Hatra, mi ha contattato infatti, nella primavera del 2021, un restauratore, tal Nikolas Vakalis. Mi ha scritto che vi si trovava in missione, con un gruppo di archeologi e che insieme avevano visto su YouTube un mio piccolo video, sincero e commosso tributo a quello che avevo potuto, da tanto lontano, conoscere di quel magnifico sito. Perciò desiderava farmi sapere che proprio in quel luogo erano iniziati gli interventi di restauro.
Il mio racconto deve ora fare un passo indietro. A quando, nel 2015, i media hanno trasmesso i filmati delle devastanti distruzioni di siti archeologici in Iraq da parte degli jihadisti nei tre anni di loro occupazione, dal 2014 al 2017. Più corretto di ISIS o IS è il termine DAESH, dalle iniziali di un’espressione araba che non contiene l’aggettivo “islamico”, perché non fa coincidere l’islamismo, che è una realtà molteplice e nella maggioranza dei casi pacifica, con quel bellicoso organismo autoproclamatosi Stato.
Era stato angosciante e doloroso vedere in rete i filmati delle loro aggressioni alla splendida Palmira (non si può dimenticare il sacrificio dell’archeologo suo custode, decapitato per difenderla), alle città assire di Ninive e Nimrud e poi alle magnifiche sculture e decorazioni architettoniche facenti parte dei templi di Hatra, quella antichissima e fiorente città, crocevia di storia e cultura e Patrimonio dell’Umanità UNESCO dal 1985. E assistere impotenti ai terribili oltraggi a quegli scrigni di bellezza che, anche se così lontani dall’epoca del loro splendore, ancora incantano fino a stordire, per forza, delicatezza, raffinatezza di forme e colori, rimandi magici e misteriosi che affondano nella mitologia e si perdono nella notte dei tempi.
Mi aveva colpito profondamente un video diffuso dalle stesse bande del califfato nero, che avevano usato templi ed edifici turriti come poligono e campo militare, in cui si mostravano all’opera mentre distruggevano una scultura con violenti colpi di piccone. Quella mensola antropomorfa, un volto femminile enigmatico e affascinante, guardava verso il basso a lato degli imponenti archi, i Grandi Iwan, nel complesso del santuario dedicato a Shamash, il Dio Sole. Ho identificato quel volto come simbolo di tutta Hatra.
In quel periodo la Galleria del Carbone mi aveva invitato a partecipare a una collettiva (“Mozzafiato, artisti ferraresi contro la violenza”) ed era per me stato immediato ripensare a quella furia cieca, al raffronto tra momenti di grazia della storia, in cui sconosciuti artisti avevano creato con le loro mani affascinanti opere arrivate fino ai nostri giorni, con altri come quelli, ingrati e distruttivi, in cui la loro arte è diventata vittima inerme delle tenebre della cultura.
Avevo raccolto le poche immagini e le riprese rintracciate allora nel web e desideravo comporre un video. Profondamente rattristata da quelle visioni, avevo immaginato che la scena in cui i frammenti della scultura cadevano a terra potesse per magia poi svolgersi al contrario, ricomponendo quel viso dal fascino misterioso, che aveva patito gli stessi assurdi affronti di tante altre meraviglie a lui attorno. Il video è questo:
Quel desiderio di riscatto, che avevo espresso nel video, mi ha spinto in seguito a immaginare una scultura, in occasione di una mia personale a Roma nel giugno 2015. Ho cercato, grazie alle immagini viste in rete, di ricreare quel volto con la creta e, una volta ottenuta la terracotta, su questa ho ricavato un calco di tarlatana, impregnata di colle. Si era formato in questo modo un velo quasi trasparente con le stesse sembianze, che voleva alludere alla sua rinascita, incorporea ma presente e viva.
Diversi anni dopo, quindi, è accaduto questo incontro virtuale assolutamente inatteso con gli archeologi, restauratori e architetti della missione italo-irachena ad Hatra. Un progetto condotto dall’Associazione internazionale per gli Studi del Mediterraneo e dell’Oriente (ISMEO, Roma), in collaborazione con lo State Board of Antiquities and Heritage (SBAH, Iraq), l’Università di Padova e l’Università di Siena e finanziato dalla fondazione svizzera ALIPH (Alleanza Internazionale per la Protezione del Patrimonio nelle aree in conflitto, Ginevra).
Nikolas Vakalis mi ha con felicità comunicato che erano stati rintracciati, recuperati e ricomposti i frammenti della mensola antropomorfa e che questa, a restauro ultimato, sarebbe stata poi riposizionata al suo posto. E così è stato.
Un lieto fine quasi da favola, un piccolo ma grande riscatto dell’umanità su quel gesto infame. Purtroppo molto si è perso per sempre, di quelle antichissime meraviglie, ma almeno Hatra – così ormai chiamo quell’antico volto di calcarenite, dal colore e calore del sole – come avevo desiderato è davvero rinata e tornata al suo posto. Ma la storia che mi riguarda non finisce qui e ha un inatteso secondo tempo in patria, in particolare a Roma.
Inaugurazione della mostra all’Ambasciata irachena, Roma
All’Ambasciata irachena a Roma, che conserva alcuni importanti reperti archeologici, si è appena conclusa un’esposizione fotografica dei lavori di restauro di quell’encomiabile missione. Con mio grande piacere ed onore sono stata invitata ad esporvi quella mia opera, come testimonianza d’amore e come auspicio d’attenzione che da ogni luogo dovrebbe arrivare verso quelle antiche, fragili, preziose testimonianze e sulla terribile e sciagurata devastazione che hanno subìto.
E’ stata per me anche un’importante occasione d’incontro e conoscenza finalmente reale con quelle persone straordinarie, artefici della rinascita di Hatra. Come gli archeologi Stefania Berlioz (un concentrato di forza, entusiasmo e competenza celati in un’esile figura preraffaellita), Massimo Vidale, appassionato direttore della missione e il giornalista di origine curda Adib Fateh Alì, che ne è il logista e project manager. Purtroppo non era presente, a Roma, il fautore della sorpresa iniziale, Nikolas Vakalis, perché allora in Medio Oriente.
Professionisti, impegnati in continue missioni internazionali, in cui la passione per il proprio lavoro supporta ogni difficoltà e vince ogni temibile rischio, comunque presente. Non è difficile immaginare le fatiche, le enormi distanze compiute, il clima da sopportare senza i conforti tecnologici a cui si è abituati. Eppure in quel “sito meraviglioso”, scrive Massimo Vidale, “tutti i partecipanti al progetto vogliono continuare la ricerca di finanziamenti e coinvolgere un numero crescente di istituzioni e persone, perché ad Hatra ci sono ancora edifici che rischiano di crollare, iscrizioni che stanno scomparendo, centinaia di sculture da ricomporre e restaurare. Ci sarà lavoro per generazioni di restauratori ed archeologi”.
Un’immersione, quindi, quella tra Roma e l’incanto di Hatra, contagiante e stimolante. Era con me, quella mattina, un amico romano, il cantautore Mario Castelnuovo. Queste parole, tratte da un suo brano, paiono evocare e racchiudere le emozioni vissute, come un volo in un favoloso passato:
So che ogni vero viaggio non ha partenze,
né arrivi, e che, fatalmente, è solo un ritorno
Se vuoi saperne di più riguardo ad Hatra, ecco alcune curiosità per approfondire
Il nome Hatra ( al-Hadr) in aramaico significava “recinto del Sole” e in arabo “recinto”. Fu fondata attorno al 3° secolo a.C. ed era la più importante tappa verso Palmira e Petra. Dall’antica città partivano almeno sei vie, individuate tuttora dalle foto satellitari. Grazie a sorgenti nelle cavità delle rocce, era, oltre che una città murata, anche un importante luogo sacro, dove s’incrociavano i culti di diverse religioni. “La città imprendibile, ancora oggi protetta dalle 120 torri che scandiscono le sue possenti mura circolari, era sfuggita indenne agli assedi degli imperatori romani.”
LINK:
Noi archeologi italiani in missione a Hatra per far rinascere il sito distrutto dall’ISIS
Essendo stata conquistata dai persiani nel 241 d.C., l’intera popolazione fu da questi deportata. Disabitata e saccheggiata, Hatra rimase sola e immobile nel deserto. Questo ha permesso che le sue rovine siano arrivate fino ai giorni nostri, dopo 1700 anni di sonno, come una testimonianza unica di città araba prima dell’avvento dell’Islam e la diffusione del suo culto. Solo nel primo Ottocento, avventurosi viaggiatori e archeologi hanno scoperto quindi l’universo intatto di questo piccolo ma straordinario regno al confine tra l’Oriente e il mondo classico.
Le fotografie aeree ci fanno scoprire ancora oggi il vasto tessuto urbano (300 ettari) attorno al santuario, racchiuso dalla grande cinta muraria. Si vede ancora anche da Google Maps qui: https://goo.gl/maps/Ptd3UqVq3TmYmjJ57
Sui muri e sulle pietre di Hatra scorrono più di 500 iscrizioni in aramaico, la lingua semitica che parlava Gesù Cristo, ma in un dialetto tipicamente Hatreno. Quell’alfabeto è composto da 22 lettere, è di tipo consonantico e si legge da destra a sinistra.
Ad Hatra esisteva inoltre una specie di super-cammelli, più resistente alle estreme temperature, un ibrido tra cammelli e dromedari. Sono ritratti a lato di un fregio che raffigura il primo Re, Sanatruk I, che aveva favorito questo incrocio delle razze.
LINK:
https://ilbolive.unipd.it/it/news/hatra-uniconografia-conferma-lesistenza
https://www.cospiratori.it/2022/01/prove-di-ibridazione-del-cammello.html
Nel 1973 Hatra è finita al cinema, non in un documentario bensì nelle prime scene del celebre L’Esorcista. Il film inizia con il ritrovamento, in un sito archeologico, di una statuetta che raffigura il volto del demonio Pazuzu.
Se di Hatra non conoscevate nulla e non avete nemmeno mai visto l’Esorcista perché vi incute troppa paura, almeno questa storia la conoscete già: un’antica leggenda racconta della figlia del re di Hatra, la principessa Nadira. Ha una storia curiosa che potete trovare in rete, in ogni caso sembra essere la fonte da cui Hans Christian Andersen ha attinto il famoso racconto della Principessa sul pisello!