Diceva Ivano che di questo passo ancora poche settimane e sarebbero dovuti andare via tutti. Lui lo sapeva bene perché andava a misurare il livello dell’acqua ogni mattina, prima di aprire il bar del paese per ascoltare i discorsi dei soliti quattro presenti. A dire il vero se ne parlava da anni ma nessuno aveva mai mosso un dito, ritenendo che il problema si potesse risolvere in qualche modo da solo. Prima erano venuti in paese un gruppo di ricercatori dell’Università, poi dei tecnici incaricati da Roma, infine avevano iniziato a scriverne anche sui giornali, ma nessuno da quelle parti si era particolarmente allarmato.
Cinquanta anime in un fazzoletto di terra alla foce del grande fiume, il mare a poca distanza che si intravede appena, quando non c’è nebbia d’inverno e non c’è umido d’estate, quindi due o tre giorni all’anno se va bene. Quattro strade, un incrocio pericoloso e due luoghi di culto: le donne dietro ai banchi tra preghiere e chiacchiere, gli uomini ai tavolini del bar per seguire le partite.
Qui dove non si fermava mai nessuno se non per chiedere indicazioni e dove il comune preposto si ricordava a malapena di passare a tagliare l’erba, tutti si sono sempre arrangiati al meglio delle loro capacità. Chi coltivava la terra, chi tagliava i capelli, chi si prendeva cura degli animali, chi teneva in ordine i conti a tutte le famiglie. Qualcuno si era persino spinto oltre la terza media ed era in grado di spiegare agli altri le cose più difficili che si sentivano al telegiornale. I più giovani che avevano completato gli studi erano andati via, un destino comune a questi luoghi che non sono in riva al mare e nemmeno hanno il rango di città. Terre di mezzo pianeggianti dove non si distinguono che piccoli gruppi di tetti riuniti intorno a un campanile, alberi sparuti, qualche capannone, fienili, frutteti, fossi, tanti fossi che nessuno saltava più da molti anni.
Comunque Ivano sembrava sicuro: ogni giorno l’acqua avanzava di dieci centimetri, aveva spiegato, la settimana scorsa arrivava davanti all’ingresso della vecchia fabbrica di mattoni, oggi era quasi alla curva che immette in paese. Chi poteva si doveva mettere in salvo, prendere le sue cose e partire prima che il mare si riprendesse tutto.
Le sue parole avevano spaventato molti, perché nei piccoli borghi il barista vale più di un sindaco e bisogna sempre dargli retta. Gianni si era arreso e sarebbe partito a breve, il tempo di mettere le cianfrusaglie di una vita negli scatoloni e serrare bene casa, non aveva colto del tutto il problema e temeva che qualcuno provasse a entrare in sua assenza.
Luigi, il fornaio, pensava di arrivare a fine mese, chiudere un paio di conti in sospeso e serrare bottega. Con i risparmi aveva già da tempo comprato un appartamento in città e si sarebbe trasferito godendosi la pensione anticipata.
Marisa era ancora in dubbio: non sapeva se orli e rammendi avrebbero avuto mercato ripartendo da zero in un’altra città. Soprattutto un posto dove andare non l’aveva, nessun parente, nessun amico che non fosse in paese. I bene informati dicevano che da qualche mese aveva una storia con il carrozziere, si vedevano dopo il lavoro e andavano insieme ad amarsi in campagna. Visto che lui non ci capiva molto del riscaldamento globale e di queste cose scientifiche, si era convinto di restare a casa, ecco perché non voleva muoversi nemmeno lei.
Martino ci aveva pensato a lungo e alla fine aveva deciso di restare. «Io e Bianchina non ci spostiamo», disse un mattino di luglio orgoglioso agli amici del bar. Non si aspettava che la notizia destasse particolare interesse, visto che ognuno era impegnato in quei giorni a pianificare la propria partenza e lo stato d’animo era per tutti particolarmente agitato.
«Sei pazzo Martino, l’acqua ti riempirà rapidamente casa! Pensi di andare a stare al piano sopra ed aspettare di essere sommerso?» gli urlò Ivano, appoggiato al bancone da cui spesso sembrava in vena di comizi.
«E dove dovrei andare? — rispose Martino — Sono nato e cresciuto qui, non so fare nulla che non mi abbia insegnato mio padre, il mondo è troppo grande per andare a vederlo ora e scoprire che non è affatto come lo immaginavo. Vieni fuori che ti mostro una cosa, vieni.»
Davanti al bar un caldo tropicale, insopportabile. I tavolini di metallo brillavano sotto il sole e nessuno riusciva a usarli più durante l’estate, l’insegna scolorita dei gelati era una piastra rovente pronta ad appiccare un incendio da qualche parte al primo raggio riflesso. Nessuno per la strada, perché stare in giro a quell’ora senza accusare qualche malore era diventato impossibile.
«Lo vedi quell’albero alto laggiù? — indicava Martino —. E quell’altro in fondo al vialetto sterrato, lo vedi? La baracca di Giovanni, il cartello dell’azienda agricola, la curva dove si è schiantato quello scemo di mio fratello tanti anni fa, te lo ricordi?»
Ivano si puliva le mani sudate nel grembiule e annuiva lentamente.
«Eccolo qui il mio mondo, il mio fantastico sputo di terra. Tutto ciò che conosco è a portata di mano, fin dove si perde lo sguardo, non mi manca nulla e non m’importa niente di cosa c’è là fuori. E sai cosa ho sentito dire? Che l’acqua che sommergerà questo paese non è un problema solo nostro e prima o poi toccherà a tanti altri che vivono sulle coste. Dove vuoi scappare? Per quel che conta, io e Bianchina restiamo qui.»
Nessuno aveva molta voglia di contraddirlo, specie da quando era rimasto solo Martino sembrava essersi chiuso in se stesso. Prima la perdita del fratello in giovane età, poi i genitori da accudire fino a che sono stati al mondo, così si era ritrovato a vivere in una casa molto grande che sembrava abbandonata al suo destino ogni giorno di più. A parte quando si faceva vedere al bar non capitava quasi mai che qualcuno gli suonasse il campanello per chiedergli come stesse o se avesse bisogno di qualcosa. Certo questa Bianchina era una novità di cui nessuno sembrava aver ancora sentito parlare. Bisognava indagare, pensava il barista davvero molto incuriosito. Dove l’aveva conosciuta? Perché non si era mai vista in giro con lui?
Nelle settimane successive erano arrivati in ordine e a stretto giro il sindaco del comune vicino con portavoce al seguito, l’assessore regionale all’ambiente e infine una camionetta dell’esercito con i soldati in tuta mimetica, che qui non si vedevano dal dopoguerra. Avevano detto davanti a curiosi e giornalisti che tutta l’area andava sgombrata al più presto, entro un mese al massimo o sarebbero passati casa per casa a dare un ultimatum alle famiglie. La marea avanzava, spiegavano in modo perentorio, e non c’erano al momento soluzioni per arginare l’acqua, quindi avrebbero sostenuto con incentivi economici chi era disposto a trovare un alloggio nell’entroterra.
Le ultime famiglie partirono dopo ferragosto. Vennero organizzate cene di addio e feste di saluto man mano che qualcuno se ne andava. Martino non partecipò a nessuno di questi appuntamenti e nessuno bussò alla sua porta per salutarlo.
Asserragliato in casa da tempo, aveva smesso di farsi vedere anche al bar per paura che qualcuno lo prendesse con la forza per portarlo via. Ogni mattina si affacciava al balcone del secondo piano, guardava verso il mare per capire dove fosse arrivata l’acqua e poi rientrava veloce in casa. Finse di non esserci quando i militari suonarono un paio di volte alla sua porta e visto l’aspetto cadente della sua abitazione probabilmente pensarono che in quella casa ormai non vivesse più nessuno.
Per qualche settimana rimase da solo a vagare per il paese ormai abbandonato: si sedeva a bordo della strada a rimirare il tramonto, a ripensare a quando da piccolo rincorreva fino in fondo al vialetto la macchina di suo padre che andava al lavoro. Alle gare da ragazzino con le biciclette, all’autobus su cui saliva per andare a scuola nel paese vicino, dove incontrava nell’ultimo posto in fondo quella ragazza più grande con i capelli arancioni, che non aveva più rivisto da allora. Certi giorni passeggiava fino ad arrivare davanti al margine dell’acqua, che sembrava stagnante ma cresceva ogni giorno guadagnando centimetri preziosi e coprendo tutto quello che incontrava. Tirava qualche sasso facendolo rimbalzare, stava minuti in silenzio con la testa bassa vicino al pelo dell’acqua per provare a scorgere qualche pesce, ma senza fortuna. Gli sembrava di essere l’uomo più fortunato del mondo a poter restare ancora un po’ in quell’angolo di terra così prezioso per lui e i suoi cari, ogni giorno sempre più piccolo, divorato lentamente dall’avanzare della marea che si allungava ad ammantare ogni cosa.
Il ventuno settembre l’acqua era arrivata ormai dentro casa sua, al pianterreno, ancora poca ma la si percepiva chiaramente e fuori aveva già coperto il giardino circostante.
Era davvero arrivato il momento. Aprì le ante della credenza in salotto, estrasse una bottiglia di grappa e ne bevette un goccio, poi un altro e un terzo pochi minuti dopo, per provare a lavar via quel groppo in gola che aveva tenuto nascosto fino ad allora. Fece una lunga doccia calda, si vestì con un paio di jeans, una camicia e lunghi stivali di gomma, fece la valigia mettendo dentro poche cose, di cui molte inutili. Si girò un’ultima volta a guardare il luogo dove aveva trascorso oltre cinquant’anni della sua esistenza, quindi indossò vistosi occhiali da sole con lenti scure ed uscì dalla porta sul retro. Entrò nel fienile adiacente, aprì il chiavistello e spostò a fatica gli enormi portoni di legno.
«Bianchina? È arrivato il grande giorno!» disse sorridente.
Dieci metri di scafo dipinto di bianco e blu durante lunghe notti di lavoro, al riparo da occhi indiscreti. Attrezzature di prim’ordine, arredi semplici ma funzionali, la stiva piena di provviste accuratamente ordinate da mesi e organizzate in modo maniacale. Martino non aveva lasciato niente al caso, nonostante quanto dicesse in paese pubblicamente. Aveva collaborato con maestri ed artigiani che nel tempo lo avevano aiutato a costruire il suo piano B con il massimo riserbo possibile, custodendo per oltre un anno il segreto di questa imbarcazione a vela dal nome tenero e d’altri tempi. Attese a bordo alcuni giorni per studiare le mappe, prendere confidenza con i suoi nuovi spazi di vita e soprattutto affinché l’acqua salisse a sufficienza per poter trascinare Bianchina fuori dal fienile dove era stata custodita.
Quando Martino partì non c’era ovviamente più nessuno con il cappello in mano a salutare, solo un cielo terso dove ogni tanto si levava qualche stormo di uccelli ad interrompere il fruscio del vento. Si girò indietro a guardare un’ultima volta i luoghi che conosceva ad occhi chiusi e che oggi non assomigliavano più a niente. Qualche tetto emergeva dall’acqua, sul cui pelo galleggiavano oggetti portati via dalla corrente. A Martino parve di riconoscere l’insegna luccicante dei gelati del bar, che sicuramente nessuno avrebbe più ordinato.
Ora il suo paese era il mondo intero, il mare sconfinato che saliva silenzioso a riprendersi quella terra che un tempo gli apparteneva. E lui era un navigante, in rotta verso l’ignoto, pronto a scoprire il mondo che non aveva mai voluto vedere se non alla televisione. Per un po’ rimase nei paraggi, lasciandosi portare alla deriva dal vento senza una rotta precisa, ma in poche settimane era già lontanissimo da casa.
Non fosse stato costretto a partire Martino sarebbe rimasto pigramente ad invecchiare a pochi metri da casa sua, senza conoscere le persone incredibili che incontrò lungo il suo viaggio in giro per il mondo, vivendo l’inverno della sua vita con l’entusiasmo rinnovato di un ragazzino.
Alcuni anni dopo, guardando le stelle sdraiata a prua insieme al suo anziano padre, Emma si sentì per la prima volta davvero felice ed orgogliosa, dopo aver ascoltato questa lunga storia.
«Oh, il merito è tutto di Bianchina, devi ringraziare lei!» disse Martino divertito.
2 commenti
Che bello Come davanti ad un quadro che ti ammutolisce con quello che ti fa pensare, non parli, non serve…pensi e basta.
Piacevolissimo racconto, garbato, gentile, poetico. Ti lascia il sorriso sulle labbra, e di questi tempi, non è poca cosa… Grazie