Brusio, trepidazione, attesa. L’inquietudine prima della calma. Signore e Signori, si alza il sipario. C’è da scommettere che Uno nessuno centomila sia uno di quei testi conosciuti da tutti o almeno dalla maggioranza di voi. Una riduzione del testo di Luigi Pirandello, pubblicato per la prima volta a puntate nel 1925 (cominciato nel 1909), arriva in questi giorni al Teatro Comunale di Ferrara, sotto la regia di Antonello Capodici. L’ultimo romanzo di uno dei più brillanti drammaturghi del Novecento, nonché vincitore del Premio Nobel per la letteratura (1934) può essere considerato come la summa del suo pensiero. L’autore stesso, in una lettera autobiografica lo definisce «il romanzo più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita». Pirandello è l’autore che tratteggia perfettamente la crisi d’identità dell’essere umano novecentesco. Le caratteristiche della moltitudine dei suoi personaggi hanno tracciato nel tempo una mappa della condizione umana. La solitudine, il conformismo, l’avarizia, l’ipocrisia rappresentano soltanto alcuni elementi sgrovigliati e analizzati in Uno nessuno centomila.
Vitangelo Moscarda, personaggio mutevole e remissivo, è interpretato dall’attore decano del Teatro siciliano e nazionale, Pippo Pattavina, che condivide il palcoscenico con l’eclettica e formidabile Marianella Bargilli, unica presenza femminile sulla scena, personaggio ambiguo e soggiogante della moglie del protagonista. Nel cast presenti altresì Rosario Minardi, Giampaolo Romania e Mario Opinato. Tutti gli attori si trasformano e vestono i panni di diversi personaggi, proponendo una rappresentazione allineata al pensiero pirandelliano. L’allestimento scenografico si trasforma sotto gli occhi dello spettatore e crea un luogo non-luogo in cui le azioni e i pensieri dei protagonisti prendono forma. Tutto il dispositivo teatrale è reso più intenso e coinvolgente dalle musiche scritte da Mario Incudine, che fanno da cornice a un proseguirsi di eventi e vicende.
Il dramma di Moscarda inizia una mattina come tante, quando intento a osservarsi il volto, nota che il naso pende verso destra, come una virgola, dettaglio confermato dalla moglie Dida. Questo preciso momento denota l’inizio della fine, un’epifania in cui realizza di essere un estraneo per sé stesso. L’improvvisa scoperta mette in discussione il suo mondo intero, la sua assoluta identità. La consapevolezza di non padroneggiare l’unico elemento di cui si dovrebbe avere una conoscenza profonda e intima, ossia il proprio corpo, turba profondamente il protagonista. Realizza di esistere attraverso lo sguardo degli altri, attraverso il ruolo che gli attribuiscono: figlio, marito, usuraio. È l’esterno a indicare il comportamento, ad attribuire connotazioni e caratteristiche. Persino per la moglie, Vitangelo non rimane fedele a sé stesso, ma diventa Gengè – un soprannome in cui non si riconosce, che lei ha costruito, con gusti completamente diversi e con pensieri che non gli appartengono. Moscarda si percepisce come uno, ma ogni persona con cui si è relazionato ha costruito un’immagine diversa, trasformandolo in nessuno. È un personaggio che soffre, si sente spaesato, non distingue più la realtà dall’immaginario: chi è realmente, che fine ha fatto quell’uno. Il protagonista sente il bisogno di scoprire tutte le centomila parti di sé, conoscerle e distruggerle, per rinascere e riscattare la sua condizione sociale di usuraio. È spinto dalla volontà di sapere la verità, di avere una vita autentica, di sradicarsi dalla sua miseria.
Tale desiderio inatteso per i suoi familiari e amici, gli si ritorce contro. Per la società deve restare ciò che è, non può liberarsi dal ruolo cucito addosso. Non riesce a vivere come realmente vorrebbe e innesca un conflitto con il mondo esterno che lo porterà a trovarsi in un’aula di un tribunale, davanti a un giudice. La sua solitudine, la sua dissociazione emotiva e il suo malessere diventano una questione relazione, compongono la base del ventaglio di rapporti che intrattiene nel privato e nel pubblico.
Nel corso della nostra esistenza indossiamo delle maschere, diverse a seconda della circostanza in cui ci si trova: in alcuni casi scelte deliberatamente per conformismo oppure per necessità, in altri imposte dalla società stessa. Ci si trova inscatolati in determinati ruoli e schemi, bloccati in alcune parti da recitare. Il riconoscimento personale avviene attraverso la conferma e l’approvazione dell’altro, ci si aspetta un autenticazione esterna della propria identità. Non c’è mai un’unica realtà uguale a se stessa. Non esiste un’unica verità, «la verità è soltanto un’opinione». La natura umana è inafferrabile, non esistiamo solamente sotto a un unico aspetto. Seppure con intensità diverse, ognuno di noi conosce e sperimenta l’Uno, nessuno, centomila.
Vediamo gli altri attraverso un filtro di giudizio personale, formato in base alle esperienze, alla formazione, al retaggio culturale. Un’unica persona si frammenta in tantissimi segmenti, si disintegra in centomila. Questa è l’amara riflessione pirandelliana – l’essere umano si scopre a essere nessuno e di vivere una costante sensazione di solitudine, una sorta di disconoscimento continuo. Uno nessuno centomila rimane un’opera attualissima proprio in quanto specchio fedele di una società disfunzionale e nevrotica, in cui predomina l’apparire sull’essere.
«Conoscersi è morire, vivere significa non vedersi.»
Lo spettacolo rimane in cartellone al Teatro Abbado ancora per oggi, sabato 19 e domenica 20 febbraio.
INFO: https://www.teatrocomunaleferrara.it/events/event/uno-nessuno-e-centomila/