Marco Turchi, ferrarese, classe 1950, è una persona poliedrica, dai mille interessi: la lettura, la psichiatria, la pittura, la politica, e anche la scrittura. Ha infatti appena pubblicato la sua autobiografia Album di Famiglia. Sessant’anni di vita ferrarese per Faust Edizioni, che sarà presentata venerdì 10 dicembre alle ore 17 in Biblioteca Ariostea, a Ferrara. Ho letto il suo libro e sono rimasta incuriosita da una vita così piena di esperienze, ho percepito l’amore di Marco per la nostra città, che ha descritto con pennellate divertenti. Mi sono proprio trovata più volte a ridere da sola e così l’ho incontrato per fargli questa breve intervista.
Ho letto il suo libro in pochissimi giorni, l’ho trovato scorrevole e spassoso, mi è sembrato di sbirciare nell’album di ricordi di un vecchio amico amante della nostra città. È stato divertente rintracciare luoghi conosciuti e scoprire aneddoti accaduti proprio nelle vie cittadine… è il primo libro che scrive?
No, non è il primo ma finora mi ero occupato solo di opere storiche o tecniche, brevi testi sulla storia della psichiatria in collaborazione con altri esperti.
Questo testo è invece un’autobiografia familiare. Dove è nata l’idea?
Tre anni fa in vacanza a Ikaria, in Grecia. Tra i libri che io e mia moglie ci siamo portati appresso c’era E adesso parlami di te di Camilleri: è una lunga lettera con episodi spesso divertenti della sua gioventù, che Camilleri indirizza alla sua nipotina di quattro anni per raccontarle chi era suo nonno. L’idea di una stampella lanciata contro il tempo e l’oblio mi ha portato a riflettere: anch’io ignoravo in gran parte la storia della gioventù dei miei nonni e dei miei genitori, li avevo sempre visti come tali e non conoscevo se non per sommi capi i bambini ed i ragazzi che pure erano stati. Ho maturato il proposito di colmare questa lacuna, richiamando alla memoria quanto era rimasto impigliato del loro passato e rendendomi conto che era ahimè davvero poco. Ma almeno quello andava salvato. Così ho raccolto i miei ricordi per lasciarli in eredità a nipotini che ora non ci sono, ma confido che i miei tre figli prima o poi si decideranno a contribuire alla perpetuazione della specie.
Il mio inizialmente non voleva essere un libro ma una lettera ad uso privato. Un amico con cui mi sentivo per telefono durante i momenti del più stretto isolamento, quando le bare delle vittime della Covid-19 venivano portate via a camionate, mi disse una frase che mi colpì: “Vedi, ognuno di questi morti è come un libro che viene bruciato, e sta andando a fuoco un’intera biblioteca”. Il pensiero di tante ‘vite bruciate’ ha suscitato in me la ribellione e ho deciso allora di intraprendere una mia personale rivolta contro l’oblio, trasformando un racconto privato in un libro pubblico, che è l’estrema orgogliosa resistenza alla precarietà della vita.
Cosa significa scrivere per lei? È faticoso tradurre in parole ciò che sente? Come ha vissuto emotivamente la stesura di un testo sulla sua famiglia?
Ho iniziato questo testo immaginandomi davanti ad un camino d’inverno con un nipotino o una nipotina sulle ginocchia: quello che scrivevo sulle pagine era una affabulazione, un racconto. Il resto è venuto da sé: i ricordi affioravano ed è poi subentrata la consapevolezza che il racconto della vita della mia famiglia è anche il racconto della città che la mia famiglia e io stesso abbiamo attraversato con le nostre vicende.
Capita che i racconti d’epoca siano intrisi di nostalgia amara, sorprendentemente invece il suo libro è davvero allegro, leggero nel senso più nobile del termine. Penso a vari episodi divertenti e raccontati con ironia nel suo libro: gli scherzi con i bambini di via Cassoli 34 o i giochi con i coetanei in viale IV Novembre. La scelta del tono corrisponde a un intento artistico o le è venuta spontanea?
Ho scritto questo testo come se fosse un racconto per bambini e i bambini bisogna farli divertire, bisogna farli ridere. A me poi viene abbastanza spontaneo raccontare barzellette, aneddoti umoristici, battute, giochi di parole. L’umorismo per me è il miglior modo per affrontare la vita; del passato e del presente preferisco ricordare ciò che mi ha fatto divertire più che ciò che mi ha fatto dispiacere. Della nostalgia penso che sia un po’ come il miele: dolce ma appiccicosa, che finisce per impiastricciare i ricordi.
Leggendo il suo libro traspare l’amore per Ferrara e per i luoghi che hanno segnato la sua vita. Cosa prova nei confronti della nostra città?
Ferrara è l’acqua in cui nuoto e non solo in senso figurato, tenendo conto dell’umidità che la contraddistingue. Quando si è presentata l’occasione concreta di lasciarla forse per sempre – e cioè quando mi si prospettò di trovare lavoro stabile a Perugia – mi sono reso conto che mi sarei trovato come un pesce che boccheggia, fuori dal torrente in cui ero nato e cresciuto. Scelsi di rinunciare alla prospettiva di un lavoro interessante e prestigioso presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, che avrei necessariamente dovuto svolgere lontano da casa, per accettare un lavoro precario e difficile nella mia città. Questa scelta è stata irrevocabile: mi ha dato consapevolezza dell’amore che ho per lei. Se dovessi scegliere una frase che lo esprima utilizzerei una citazione della Storia di Ferrara di Antonio Frizzi: “Soave nome è quello e dolce il debito di amar lei, che ci prestò la culla”.
Cosa prova per la Ferrara di una volta, e cosa per la Ferrara d’oggi?
Per la Ferrara di una volta non provo nostalgia perché sono consapevole che i momenti che hanno costituito una parte della mia esistenza sono stati unici e irripetibili, e che perciò vanno ricordati con dolcezza e leggerezza. Di quella di oggi vivo con partecipazione le vicende, pur non essendo più impegnato politicamente in maniera attiva. Riesco, con l’esperienza, ad ammorbidire le passioni e a moderare gli entusiasmi.
Casa sua è piena di libri, so che legge molto. Cosa predilige?
Sì, leggo molto e un po’ di tutto; quasi mai le ultime novità, perché sono spesso il frutto di operazioni di puro mercato. Amo alcuni autori e mi dispiace non citarne altri: Elsa Morante, Sciascia, Bufalino, Silone solo per citare i primi che accorrono alla mente, ma la lista sarebbe lunga. Credo che aprire un nuovo libro sia come aprire ogni volta una nuova finestra sul mondo: ce n’è bisogno sempre ma in special modo di questi tempi, per rimuovere l’aria chiusa e maleodorante che sta impestando l’atmosfera della nostra casa comune. Leggere un libro è un antidoto naturale contro le ottusità e le assurde chiusure mentali e materiali che emergono sempre più preoccupanti.
Che libro consiglierebbe al suo migliore amico?
Non riesco a fare a meno di proporne almeno cinque: Da animali a dei di Harari, La diceria dell’untore di Bufalino, L’isola di Arturo di Elsa Morante, I tre Piani di Eshkol Nevo e per finire un’autrice recente veramente divertente Gli insospettabili, di Sarah Savioli.