(articolo sponsorizzato)
Buenos Aires, 8 maggio 1968, Teatro Colón. In uno dei teatri d’opera più grandi al mondo fa il suo esordio Maria de Buenos Aires di Astor Piazzolla su libretto del poeta uruguaiano Horacio Ferrer. È un insuccesso totale e l’autore arriva addirittura a perdere la macchina probabilmente ipotecata per finanziare l’opera. Oggi Piazzolla è riconosciuto come “un genio assoluto – scrive Luca Baccolini –, capace di manipolare la musica popolare argentina per forgiare un nuovo genere, che prima non esisteva”. All’epoca era avanguardia, un eretico del tango incapace di fermarsi al classicismo e alla ricerca di nuove forme e nuove linee per tracciare i suoi spartiti. Sabato e domenica Maria de Buenos Aires sarà al Teatro Comunale di Ferrara per la regia di Carlos Branca.
Mal sopportato se non addirittura disprezzato sia dai tangheri che dagli accademici. In realtà Piazzolla nasce proprio come musicista di tango. Il padre, amante del genere, quando ancora vivevano a New York gli regalò un bandoneón e al suo ritorno in Argentina viene immediatamente preso a suonare nell’orchestra di Aníbal Troilo. Non si accontenta, è un virtuoso. “Il suo maestro – ci dice Carlos Branca – gli diceva che metteva troppe dita e la gente non poteva ballare tutta la virtuosità che metteva”. La sua idea di tango non ha molto a che vedere con quella dei puristi. Non è un tango da ballare ma da ascoltare o addirittura da proporre come opera.
Maria de Buenos Aires, opera inizialmente pensata per la radio, è probabilmente il suo lavoro più importante, conosciuto in Europa e in Italia anche grazie all’interpretazione di Milva a cui Ferrara dedica lo spettacolo che commemora i cento anni dalla nascita di Piazzolla. Un’opera surreale, onirica attraverso la quale l’autore racconta la sua Argentina, Buenos Aires in una metafore di morte e rinascita. Morte e rinascita di Maria, protagonista dell’opera, ma anche della città stessa. La storia prende ispirazione da una leggenda metropolitana di inizio Novecento. “Le vicende della protagonista – racconta Branca – raccontano gli anni della povertà, della speranza, dell’oppressione di uno Stato dittatoriale e della temporanea rinascita di questa città metropolitana per eccellenza”.
Maria, ingenua e pura, viene sedotta dalla musica del bandoneón, che la corrompe e la vìola. “Si prostituirà – scrive Branca –, verrà violentata, picchiata, straziata ed infine uccisa. Neanche il sacrificio della morte la libererà perché sarà condannata a rinascere ogni notte dalla sua stessa ombra affinché ricominci, vergine, il ciclo infernale”. “Il maschio corruttore – aggiunge – è rappresentato, nella scrittura musicale, nel libretto e anche nella coreografia di questa produzione, dal bandoneón. Nato in Germania per accompagnare le cerimonie religiose, con un ruolo quindi sacro, dopo l’approdo in Argentina, diventa lo strumento fondamentale del tango e pertanto usato nei postriboli prima e nelle milonghe poi, dove assumerà il suo carattere profano”.
Due parti, sedici quadri, otto per parte. Maria protagonista nella prima parte e la sua ombra nella seconda. In quest’opera si ritrova il realismo magico sudamericano nella sua crudezza ma anche nella sua poesia capace trasportare attraverso un mondo tanto onirico quanto estremamente reale.
Ne abbiamo parlato con il regista Carlos Branca, argentino che da ormai 15 anni vive in Italia, a Bologna ma con un forte legame anche con Ferrara. Città nella quale ha peraltro tenuto numerosi corsi di teatro.
Maria de Buenos Aires è stata proposta per la prima volta proprio nella capitale Argentina nel 1968, un periodo molto particolare. Come si inserisce l’opera nel contesto storico e considerando anche la lunga esperienza di vita di Piazzolla a New York?
La prima a Buenos Aire fu un fallimento totale, perse anche la sua macchina dato che se l’era autoprodotta con Horacio Ferrer. La sua storia è un po’ rocambolesca, molte volte esiliato per volontà propria oltre a essere uno che inizialmente ha negato il tango. Il Tango piaceva a suo padre, un po’ come Mozart. Ha negato il tango molte volte nella sua vita, per esempio quando ha vinto un premio per studiare in Europa con Nadia Boulanger, riconosciuta come la più grande pedagoga di musica, si vergognava di dire che suonava il bandoneón. Voleva comporre musica classica, musica accademica. É stato molto contaminato da tante cose.
Piazzola aveva entrambi i genitori di origine italiana…
Infatti il nonno era di Trani e la mamma originaria di Lucca. Era uno tosto perché ha avuto tanti problemi nella vita. Considera che i tangheri dicevano che era un accademico di m. mentre gli accademici che era un tanghero di m. Lui ha sempre lavorato in questa periferia, nel mezzo di tante cose. Era un genio e mescolava dentro di se la musica che gli piaceva fare. Mi piace ricordare anche Luis Bacalov, che è stato mio maestro per quindici anni, argentino e premio oscar, ha lavorato molto con Ennio Morricone e diceva sempre: “se questa è musica leggera l’altra è pesante, mentre la musica o è cattiva o è buona”. In questa opera noi troviamo tante ossessioni tante ripetizioni, tanti motivi di Piazzolla che poi ha applicato a tanti brani suoi. È un’opera strana, diciassette numeri inizialmente senza scena, un’opera da camera per essere ascoltata. Fu un’avanguardia e come tutte le avanguardie non fu capita. Poi per fortuna è esplosa.
Avanguardia dovuta in parte anche al libretto di Ferrer, anche perché in questa musica Piazzolla attinge molto anche dal classico…
Assolutamente. Quando conobbe Ferrer gli disse: “Tu scrivi testi che hanno a che fare con la mia musica”. La storia uscita è un po’ rocambolesca con tante parole che sono neologismi. Anche se sei spagnolo o argentino non è detto che si capisca. È un opera che per essere vista deve essere studiata, come si farebbe per la Traviata. Quello che io ho cercato di fare è di dare suggestioni. Non è che quando guardi un’opera ti deve catturare dal punto di vista razionale, ti deve catturare dal punto di vista emotivo. Questa è un’opera un po’ felliniana perché ha a che vedere con il mondo del sogno, con una città che sta tra la costruzione e la decostruzione. Un opera che parla molto della violenza che hanno fatto a Maria, un’opera che può piacere o non piacere ma ciò che importa è che ti lasci suggestioni.
Maria che muore e rinasce si può vedere anche come il tango di Piazzolla…
Si, bello. Maria è metafora di tante cose. Prima di tutto Maria è attratta e sedotta da questa musica incarnata dal bandoneón, come il flauto magico. Ma è anche attirata dalla città, una città un po’ maledetta (Buenos Aires, ndr) anche se noi abbiamo pensato a una città più universale, una città quasi immaginaria o invisibile come quella di Calvino. Maria, che è anche il nome della città (Santa Maria de Buenos Aires), è nata, dice il testo di Ferrer, in un giorno in cui Dio era ubriaco ed è condannata a morire tutte le sere per rinascere nuovamente vergine per saziare uomini sudici.
Hai cercato di rendere l’opera più universale anche attraverso la scenografia che non è quella classica rappresentante una milonga ma a sovrastare sul palco sarà un’impalcatura…
L’ho scelta perché Buenos Aires è una città paradossale nel senso che è bella perché è brutta. Non è come le città italiane dove c’è tutta l’arte dell’universo. Una città eclettica abitata da tantissime nazionalità, affascinante anche per la sua pericolosità. Mi sono immaginato la città come un’impalcatura perché è una città pericolante che sta sempre per cadere ma sempre rinasce.
Città tra l’altro talmente eclettica che quegli anni difficilissimi furono i più prosperi dal punto di vista economico…
Sempre difficilissimi perché il ‘900 è stato pieno di dittature militari, cosa che non dobbiamo mai dimenticare. Questo l’ha resa una città con tanto buio, tanta repressione che però è anche parte del fascino di quella città. Una città nascosta che vive di notte. C’è sempre del macabro, del segreto sullo sfondo. L’impalcatura ha quindi a che vedere con una città pericolante o in costruzione che è una cosa che succede sempre a Buenos Aires e non sai mai se quell’impalcatura sostiene la città o la fa crescere. Mi sono permesso di allontanarmi dal tango e dall’ambientazione della milonga perché a Piazzolla non piaceva il tango ballato. Da giovane, quando lo suonava, il suo maestro gli diceva che metteva troppe dita e la gente non poteva ballare tutta la virtuosità che metteva. La musica di Piazzola non è semplice, è virtuosa.
Come nasce quest’opera?
Nasce prima di tutto perché non sempre si cerca ciò che si vuole fare ma spesso è il materiale che ti trova. Prima della pandemia, con Marcello Corvino, abbiamo visto Martina Belli interpretare una Carmen e ho pensato che potesse essere un’ottima Maria. Anche se, si deve dire, Carmen e Maria non hanno nulla in comune.
Come hai lavorato con gli interpreti?
Ho cercato di fare una cosa eclettica e che il racconto abbia tanti livelli di lettura e non una narrazione aristotelica con un principio, un mezzo e una fine. Prima di tutto perché l’opera già li ha ma sono molto caotici, la narrazione va avanti e indietro. Ho scelto di non lasciarmi acchiappare perché sia una cosa comprensibile dal punto di vista razionale. Volevo trasmettere molta sensazione con la musica, con l’immagine e con la narrazione degli attori\cantanti.
Quindi c’è tanto di tuo?
Si, di mio ma tanto anche di loro, degli attori, degli scenografi dei tecnici luci. A me piace lavorare in equipe, dieci occhi vedono meglio di due. Io vengo da un teatro underground e cerco sempre di recuperare lo spirito artigianale del lavoro teatrale. Cerco di mettermi al servizio loro e viceversa.
Al servizio di attori, musicisti e dell’opera.
Assolutamente. Quando tu fai un’opera lirica devi capire che è musica e la musica deve comandare. In questo periodo c’è tanta lotta per la dittatura della regia, per le interpretazioni che vengono fatte di grandi opere. Il nome di Mozart non può essere più piccolo di quello del regista così come quello di Piazzolla, noi siamo servitori di questi capolavori.
Lo spettacolo è affidato a tre voci e nove danzatori. Marìa sarà interpretata da Martina Belli, versatile mezzosoprano e voce di raro fascino, affiancata dal baritono di origini argentine Ruben Peloni (Payador), mentre Daniel Bonilla-Torres interpreta El Duende, il folletto che diventa appassionata voce narrante della vicenda. Nello stesso ruolo, in passato, proprio Bonilla-Torres era stato in tournée internazionale con Milva.
Il regista Carlos Branca, esponente di spicco del teatro lirico e di prosa, oltre all’Orchestra Arcangelo Corelli diretta da Jacopo Rivani e caratterizzata dal peculiare suono del bandoneón di Davide Vendramin, ha coinvolto per questa coproduzione (che unisce cinque enti teatrali italiani) i danzatori di MM Contemporary Dance Company di Reggio Emilia del coreografo Michele Merola con il coordinamento di Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto. Nel cast artistico coinvolti anche alcuni professionisti della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, tra cui Giulio Scutellari che con Carlos Branca firma le scene e Marco Cazzola il disegno luci.
Il nuovo allestimento è coprodotto dalla Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, Ravenna Festival, Teatro Marrucino di Chieti, Teatro del Giglio di Lucca e Teatro di Pisa e gode del Patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia, oltre che del sostegno del Ministero della Cultura, della Regione Emilia Romagna, del Comune di Ferrara e di Eni. Presentato a luglio 2021 a Ravenna, lo spettacolo è stato in tournée a dicembre nelle città di Pisa e Chieti, infine Ferrara. Il 19 e il 20 febbraio 2022 sarà messo in scena a Lucca.
A Ferrara sarà in scena al Teatro Comunale il 18 dicembre 2021 alle 20.00 e il 19 dicembre 2021 – 16.00.