Venerdì sera, tornata a casa dopo lo spettacolo, mi sono seduta alla scrivania davanti al computer; le mani sulla tastiera, la pagina bianca, la testa piena di immagini.
Niente. Nessuna parola.
Un’emozione appagante e intensa, che stringe lo stomaco e increspa la pelle, ma nessuna parola. La mia mente al largo nuotava con foga per non affogare in un mare di irrazionalità.
Non penso mi sia mai successo prima d’ora perché – ahimé – trovo sempre qualcosa da dire. Spesso ho avuto il problema contrario, prolissa e piena di opinioni non richieste come sono. Eppure niente. Un niente con gli occhi lucidi.
Elio Germano e Teho Teardo sono riusciti nella grande impresa di dare una nuova vita, forte e chiara, al canto XXXIII del Paradiso dantesco, e di lasciare me – l’adulta che corrisponde alla bambina che le maestre non smettevano di spostare di banco in banco perché ‘parla anche con i muri’ – in silenzio.
Provo a mettere in ordine le tante ragioni della mia euforia paralizzante.
La prima stretta allo stomaco arriva sulla seconda nota dell’ouverture di Teho Teardo. Si inseriscono Laura Bisceglia al violoncello e Ambra Chiara Michelangeli con la sua viola, anche loro sul palco. Musica, dal vivo, devastante nostalgia; scopro quanto questo momento mi fosse necessario. I bassi scuotono il legno del pavimento del teatro, si arrampicano sul velluto delle poltrone, ci appoggiano le mani sulle spalle e ci scuotono con forza. Il primo pezzo ci spinge deciso in una dimensione nuova. Tutto il pubblico è di pietra, con il cuore sciolto in mano. E poi lui, seduto in terra, che anche nella penombra, anche con la sua sola silhouette ritagliata sulle luci, è così presente da non farci distrarre nemmeno per un secondo. La parola a Elio Germano.
Un filo di voce, il suo eco. Le parole si accavallano tra suoni e giochi di luce. La preghiera è per colei che nobilita la natura umana, luce di carità e fonte di speranza; i versi scivolano tra i sospiri di chi è spinto da grande e puro amore. Intercede San Bernardo per la nostra guida. La Vergine, che tutto può, aiuti Dante, il mortale, a guardare attraverso gli occhi di Dio per poter riportare in versi ciò che vede, ma più di tutto lo aiuti a non perdere lo sguardo di Beatrice. Umano Dante, con una missione così importante, eppure sempre così umano da non poter rinunciare all’amore – non quello universale e divino: quello sincero e struggente che solo noi umani sappiamo nutrire.
Un passo verso la luce; la Vergine accoglie la preghiera. Il nostro immenso Dante, sempre sussurrando, si mostra genuino al suo pubblico mentre guarda fisso verso la luce, avvicinandosi a noi. Da qui in poi il ricordo si offusca, la memoria cede, come colui che sogna e al risveglio proprio non ricorda cosa lo abbia tanto colpito e rinfrancato. Chiede aiuto a Dio, perché qualcosa possa restare vivo nell’animo. La supplica è a pochi passi da noi, e sempre rimarcata dalle perfette costruzioni sonore di Teardo.
Dante rivolge lo sguardo verso Dio e viene accolto nella sua essenza universale. Tutto il bene del mondo è proprio lì, a pochi passi da lui, da noi. Nessuno può restare immutato davanti alla conoscenza. Tre cerchi si alternano nella sua mente e davanti ai nostri occhi. La luce li esalta, li spezza, li scioglie e ne svela la reale natura. La Trinità, dice, ma ancora il suo filo di voce – rammaricato – non riesce a descriverne la sensazione. Il figlio; ecco dove si riconosce, e dove ci riconosciamo anche noi. Il cerchio del figlio non si lascia comprendere, eppure lì c’è la nostra immagine riflessa. Noi umani, fragili, piccoli, così semplici: che tassello ci manca per raggiungere la verità? Sempre sussurrando, in questa litania così rassicurante e ormai familiare, Dante ci svela il fulgore di un attimo… È l’amore a riempire il nostro vuoto.
È l’amore a muovere il sole e le altre stelle.
Il mio fragile stato d’animo si rompe in mille pezzi schiacciato dal peso di queste parole perfette, pronunciate con dedizione e sentimento, e con il solito filo di voce. Un registro mai scontato, mai facile, mai posticcio, sempre incalzato dagli archi, dai bassi e dal synth.
Il cerchio si chiude, il nostro, quello del figlio. Sempre troppo umani per non reagire di pancia. Sempre così fortunatamente umani da poterci godere a pieno ogni secondo della nostra incostante esistenza.
Le parole ora scorrono sotto le mie dita senza che io possa trattenerle. Quanto è discontinuo il nostro pensiero. Ma c’è sempre una sola cosa che muove i nostri silenzi, le nostre grida, il sole e le stelle: l’amore. Fossimo capaci di ricordarcene ogni giorno.
Germano e Teardo hanno parlato al nostro cuore con parole antiche, ma in modo tanto comprensibile e contemporaneo da saper rendere conseguente ogni verso al gracchiare del basso. Gli archi con le parole, le luci con i tappeti sonori. Un intreccio naturale fuori dal tempo e dallo spazio.
Una platea in religioso silenzio davanti alla magia, appesa al filo di voce di un immenso Elio Germano, aggrappata ai tappeti sonori dell’insostituibile Teho Teardo, barcollanti sugli archetti del duo Bisceglia – Michelangeli, immersa nella fantasia virtuale dei giochi di luce.
Risvegliarsi dal sogno non è mai stato così difficile; crudele rientrare nel proprio umano ruolo e rompere l’incantesimo con un applauso.
Ma lo spettacolo finisce, il cuore è sazio e per un poco ci basterà.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.