Credo di aver sentito parlare la prima volta di Stefano Lolli da ragazzino a scuola, in una di quelle iniziative dove le classi incontrano i giornalisti e solitamente li bombardano di domande curiose sul loro mestiere. Poi ognuno torna a fare la propria vita, gli uni a scrivere articoli ogni santo giorno, gli altri a non leggerli ancora per diversi anni a venire.
Sebbene molte persone non facciano caso alla firma di un articolo sulla stampa locale, è difficile dire di non essere mai incappati in un pezzo di Lolli: sulle pagine del Resto del Carlino in oltre quarant’anni di carriera ha scritto decine di migliaia di testi sugli argomenti più disparati, ha visto passare tra le pagine di un quotidiano colleghi, direttori, presidenti, sindaci ed allenatori. Si è occupato spesso e volentieri di politica con amministrazioni ben diverse tra loro, inserendo sempre tra le righe dei suoi articoli quel briciolo di arguzia, ironia ed esperienza, capaci di far sorridere o incazzare l’intervistato di turno. Soprattutto di suscitare emozioni e reazioni anche nel ferrarese distratto, quello che sfoglia pigramente il giornale mentre sorseggia un caffè al bar. Stefano è stato insomma un giornalista Giornalista (cit.), con la G maiuscola, come se ne vedono sempre meno nelle redazioni che fanno i conti con tagli e calo di lettori.
Quando lo incontro per intervistarlo è il suo ultimo giorno di lavoro, un mattino di inizio luglio: attende la visita del Presidente Bonaccini in Castello a Ferrara, poi andrà in ufficio qualche ora e dal giorno dopo non dovrà più correre ad alcuna conferenza stampa o trascrivere dichiarazioni sul taccuino che porta spesso nelle tasche dei bermuda. Perdonerete quindi se la conversazione sarà un po’ lunga, sarebbe stato interessante chiedere tante altre cose di una carriera sterminata ma anche il web ha i suoi spazi, anche se non sembra.
Io accendo il registratore, sono lento a prendere appunti.
Tra l’altro è la prima volta che mi intervistano sai? Meglio non farlo con i giornalisti altrimenti poi si montano la testa.
Facciamo un’eccezione, tanto tra poche ore giornalista non lo sarai ufficialmente più. Partiamo dall’inizio?
Il mio esordio possiamo dire che sia stato alle elementari, qui ho composto il primo giornalino: mia mamma era ragioniera in Comune, io scrivevo gli articoli a mano e con la carta copiativa facevamo qualche copia per parenti e conoscenti. La prima insegnante di giornalismo è stata la mia maestra, eravamo una classe di selvaggi quindi ci dava temi molto particolari, voleva che fossimo curiosi e imparassimo a raccontare.
Oltre alla curiosità hai fatto studi particolari?
Ho frequentato un corso di giornalismo all’Università di Camerino, organizzato dalla Rai, un corso inutile. Ho frequentato svogliatamente giurisprudenza per un po’, per far contenti i miei, ma ho mollato e iniziato a fare il collaboratore per la tv locale. Era verso la fine del 1979, avevo vent’anni e sono entrato a Telestense, che all’epoca stava in cima al grattacielo.
Sopra Telemondo, la tv di Bragaglia.
Si, ma Telestense aveva ambizioni da tv professionale: comprarono alcune telecamere da ATR di Rovigo, ci rifilarono nel pacchetto anche il tecnico, un tipo scarsissimo. Facevo l’anchorman, quello che legge il telegiornale. Eravamo una bella squadra, considera che quando c’è stato il boom dei giornali in città molti giornalisti li presero proprio da quel gruppo, in pratica rimase in tv solo Alessandro Sovrani.
Definiamo “boom dei giornali”.
Alla fine degli Anni ‘80, quando c’era ancora la Gazzetta di Longarini, poi la nascita della Nuova Ferrara… il Carlino aveva tre o quattro collaboratori soltanto ed iniziò ad assumere.
Lettori?
All’epoca il Carlino tirava ventimila copie, ma ha mantenuto per anni una fetta di lettori consistente, perché La Nuova ha attratto pubblico più che altro da Repubblica o l’Unità, che aveva anche una pagina locale. Abbiamo avuto davanti anni di ottime vendite prima del declino generale della carta stampata e del cambiamento epocale che ha portato il web.
Al Carlino era ancora gavetta o ti eri già fatto un nome?
Ero abbastanza conosciuto per via della tv, la mia vera gavetta era stata quella, dove prendevo pochi soldi e mi mantenevo grazie ad un lavoro all’Azienda Trasporti. Invece al Carlino sono entrato in una redazione strutturata partendo da zero, mi mandavano a seguire le partite di calcio dilettanti. Una domenica a Casumaro sono arrivato tardi e non ho ricevuto le formazioni, ho capito quale fosse la squadra di casa solo a metà primo tempo, quando hanno fatto gol.
Poi la politica, dove Lolli è diventato Lolli.
Ho iniziato a occuparmi di politica nel 1992, per riassetti interni alla redazione, anche se non in modo fisso. La cosa bella di lavorare per un quotidiano locale è che puoi occuparti di tutto, a parte la cronaca nera che non è mai bella ma tocca a tutti in diverse occasioni.
A te cosa è piaciuto di più?
La politica mi è piaciuta fino ad un certo punto, ma non mi diverte più da anni. C’erano politici di altro spessore, una classe politica più alta… erano persone più ironiche, li punzecchiavi e loro si incazzavano ma ci si rispettava anche nell’asprezza di una critica. Questo non puoi più farlo, quando ci sono persone che valgono poco o si prendono troppo seriamente, guai a toccarli!
Ti piace ancora fare il giornalista?
Sempre meglio che andare in miniera, e onestamente tornassi indietro lo rifarei. Finisco questo lavoro oggi con lo stesso stato d’animo del primo giorno, sicuramente con qualche sorpresa dell’ultimo minuto. Questo lavoro è sempre così e le notizie arrivano a sorpresa a metà giornata, spesso costringendoti a reimpostare tutto da capo.
Il giornalista non ha orari.
Io in realtà ho sempre lavorato dalle 9 del mattino alle 9 di sera… una decina di ore al massimo. Niente notti, è un mito che non esiste più… Con il passare dell’età comunque non ho avuto qualcuno che facesse il lavoro sporco al posto mio, anzi complice la riduzione del personale il lavoro è aumentato.
Non c’è solo la scrittura, immagino.
Quella è la parte bella, poi c’è la “cucina”, la preparazione delle pagine. Per anni mi sono occupato di quelle della provincia, dal layout ai rapporti con i fotografi. Anche il loro lavoro è cambiato molto: una volta mandavano le foto alla redazione in busta con il treno della sera, oggi a volte le facciamo noi stessi o le troviamo sui social del politico di turno.
Per non parlare del web, che merita un lavoro enorme e dove il Carlino almeno a livello locale non sembra ancora trovare la marcia giusta.
Resta il grande punto da sviluppare, perché il sito c’è ma non ha mai avuto un boom particolare. Stanno investendo solo di recente in tal senso, parallelamente all’uscita di alcuni giornalisti ne entreranno alcuni dedicati solo a web e social. Per chi come noi fa ancora il giornale cartaceo, la parte digital diventa di troppo. Non riusciamo a fare altro che pubblicare anche sul web la stessa notizia, raramente contenuti originali, ma sarebbe divertente farlo.
Così però i lettori che gravitano intorno al Carlino rischiano di essere sempre più gli anziani meno avvezzi alle tecnologie. E le nuove generazioni?
Il rischio c’è sempre stato, il Carlino è sempre stato visto come il giornale di una certa fascia di età più matura. Servirà un’evoluzione che non perda il cartaceo ma lo porti ad essere letto anche su dispositivi mobili. Certo, la svolta tecnologica compete a chi si occupa di tecnica, il giornalista deve preoccuparsi maggiormente del contenuto. Anche se è vero che è cambiato il linguaggio, io ero prolisso fin dalle scuole, ma sulla carta devi trovare un compromesso di sintesi e i pezzi risultano più asciutti rispetto a vent’anni fa.
Anche sul web, dove la soglia di attenzione di molti sembra non vada oltre le poche righe…
L’assillo di trovare una notizia, condensarla e trovare la chiave giusta per proporla online per me è stimolante. Alcuni come il vostro magazine hanno modo e spazio di dilungarsi, in un giornale cartaceo sarebbe un sogno ma anche una colpa, mentre online se lo sai fare volendo puoi sviluppare un racconto, un’analisi… Sul quotidiano è più importante accompagnare il lettore nelle varie storie giorno per giorno.
Accompagnaci allora per un attimo attraverso gli ultimi quarant’anni di politica ferrarese: sei stato un osservatore privilegiato del lavoro di ogni sindaco. Che ricordi hai di Roberto Soffritti?
Averci a che fare è stata un’avventura leggendaria, come giocare nel Real Madrid. All’epoca i sindaci avevano più potere e quell’amministrazione era uno squadrone fortissimo. C’era Franceschini alla cultura, Bratti all’ambiente, Chiarini al Bilancio, Bertelli ai lavori pubblici… gente che ha fatto poi una bella carriera. Contrastarli sul giornale era impegnativo, io li attaccavo ma gli riconoscevo una preparazione notevole a partire proprio dal Duca Rosso.
Sateriale.
Gaetano Sateriale è stato un grande sogno collettivo. Persona di grande cultura, che ha segnato un’epoca dove l’asse di potere era tra Comune, coop e alcuni potentati economici. Un asse non sempre positivo e che lui ha provato anche in parte a tagliare, ma il difetto più grande forse è stato quello di non aver dato particolare slancio alla città, forse per via dei meno mezzi a disposizione rispetto al passato. Persona squisita comunque, forse un utopista.
Tagliani è un amico di vecchia data…
Era il mio compagno di banco al liceo, sicuro non posso parlarne male dal punto di vista personale o perderei un amico! Come sindaco si è trovato nella situazione di dover fare una grossa manutenzione alla città, vecchia per molti aspetti, con problemi di bilancio ereditati dalle amministrazioni precedenti. Come gestione del comune nulla da dire, è stato un bravo amministratore. Quella che è mancata, per colpa sua o della situazione complessiva, è stata una visione di prospettiva come aveva ad esempio Soffritti. Ferrara città d’arte, il progetto mura, le grandi mostre… all’epoca bisogna dire che c’era una visione futura che forse è mancata nell’ultima gestione del centrosinistra. Nessuna strategia di rilancio o analisi di cosa sarebbe diventata la città. Ma questa forse è la colpa più grossa di tutto il centrosinistra negli ultimi anni.
…e alla fine arriva Fabbri.
Lui lo conosco da quando era sindaco a Bondeno e l’ho seguito da consigliere regionale. Durante un dibattito ad Aguscello ormai dodici anni fa gli chiesi: preferiresti andare in Regione, in Parlamento o diventare Sindaco di Ferrara? Lui disse: Sindaco di Ferrara tutta la vita. Si capiva che aveva un progetto politico personale, a parte quello di crescita generale della Lega, ci teneva ad arrivare dove si trova ora. Ma se dovessi scommettere un euro a breve me lo vedo correre per il Parlamento. Perché è una di quelle persone che ha sempre voglia di salire un gradino in più.
Un giudizio di metà mandato?
Un giudizio? Beh… diciamo che è una persona che rispetto.
Se le elezioni fossero andate diversamente avresti seguito Modonesi in un’esperienza in Comune?
No, l’avrei seguito come seguo oggi Fabbri, da giornalista. L’unica volta che ho rischiato di essere coinvolto come portavoce è stato con Sateriale. Eravamo quasi giunti ad un accordo ma avrei dovuto licenziarmi dal giornale e non ci ho pensato su due volte, non tanto per il posto fisso ma perché preferisco il lavoro che faccio. Di Aldo sono amico, probabilmente gli avrei dato dei consigli. Trovo giusto che le persone sbaglino da sole… un giornalista al massimo descrive le cose e il politico se è sveglio capisce e fa suo il concetto. In questo senso devo dire che Fabbri e il suo enorme staff comunicativo sono bravi. Hanno messo in piedi una macchina capace di intercettare quello che succede e soprattutto di orientarlo.
Però più crescono gli apparati di comunicazione interna ad amministrazioni ed aziende e più il ruolo di analisi dei quotidiani viene meno. Sembra che anche i politici vogliano sempre più fare a meno dei giornali, comunicando a 360 gradi ad ogni ora del giorno, senza aspettare intermediazioni e interpretazioni.
Questo è vero e sta condizionando tanti settori, che cercano di crearsi il loro pubblico… Il giornale comunque continua a dare una patina di nobiltà, non si può farne a meno del tutto. I social sono molto più effimeri ma creano pericolose bolle di consenso. Nella politica è deleterio: un commento diverso o critico viene tagliato fuori, insultato e circoscritto, finendo per condizionare altre persone. Mi fa spavento… se questo è quello che deve diventare il giornalismo sono contento di fermarmi qua.
Ti è mai capitato di essere la voce critica o di entrare in collisione con la linea del giornale?
Sono sempre stato il “progressista” all’interno di un giornale più ortodossamente di centrodestra e liberale. Eppure ho avuto la fortuna di non avere mai ingerenze o censure. Io ovviamente mi sono limitato come possibile ma mi è sempre piaciuto fare ironia: chi legge un giornale deve anche divertirsi tra citazioni e battute… lo potevo fare liberamente, e i problemi sono nati soprattutto fuori, quando quell’ironia non era compresa o percepita come attacco personale dal mondo politico. Forse così non ho fatto la luminosa carriera che uno poteva immaginare, ma poi servivano capacità che io onestamente non ho: diplomazia, pubbliche relazioni… io preferisco scrivere.
Ambivi alle pagine nazionali?
No, io per pigrizia sono stato sempre bene qui a Ferrara, facendo il lavoro che mi piaceva nel posto che mi piaceva. Qualche occasione di salto di carriera c’è stata ma presupponeva un cambio di vita e la pigrizia del ferrarese ha prevalso.
I colleghi che ricordi con maggior stima?
Tantissimi, forse più di tutti Andrea Botti, giornalista storico di nera e giudiziaria del Carlino. Fu lui a spingere per farmi entrare, è stato tanti anni il mio riferimento. Poi mi sono trovato benissimo con il caporedattore Fornasari, con l’attuale Bendin, con cui ho un ottimo rapporto. Il rammarico è che le redazioni si siano assottigliate: una volta erano squadre ricche e competitive, erano ambienti stimolanti. Ora che siamo rimasti pochi e oberati di lavoro non si litiga più, non ne abbiamo il tempo.
Tra le penne che speri raccolgano il tuo testimone citi spesso Daniela Modonesi.
Peccato non scriva sul giornale, ho letto cose sue di quando collaborava a La Città, erano scritte in maniera eccezionale. Qualche anno fa Il Giornale dell’Arte mi affidò un articolo lunghissimo, quattro pagine con vita morte e miracoli su Dario Franceschini, per me un pezzo estremamente divertente. L’ho scritto come avrebbe fatto Dumas, Daniela lo rilesse in modo critico e quel giorno mi insegnò a usare le virgole come Dio comanda. Ogni giorno in questo mestiere impari qualcosa, l’ho capito in quell’occasione.
Come ti sembra l’informazione locale a Ferrara?
C’è tanto potenziale e un’offerta ricca per una città in fin dei conti povera: serve un bacino pubblicitario consistente per fare informazione e questo è un problema che condiziona tutto il settore. Sul web nascono nuove esperienze capaci di intercettare nuove generazioni ma devono ritagliarsi un loro pubblico e non è facile farlo se poi hai poca possibilità di crescita economica. Mi viene in mente ad esempio l’esperienza de Lo Spallino che oggi è in standby per mancanza di sponsor, è un vero peccato.
Così sempre meno persone si avvicineranno a questo lavoro.
Infatti non c’è alcun ricambio nelle redazioni dei quotidiani tradizionali e nemmeno i giornali online offrono grandi prospettive, è una delle cose che più mi angosciano. Molti ragazzi studiano comunicazione e poi si aprono un blog o scelgono strade indipendenti invece di collaborare con testate esistenti. C’è meno vocazione, meno voglia di fare gavetta e soprattutto i social hanno trasmesso l’idea che basta un post per essere qualcuno che sta facendo informazione. Tipo: ho avuto mille visualizzazioni, sono il nuovo Mentana! Si, bello, ma non è quello fare informazione. Ho avuto ancora la fortuna di appartenere ad una generazione che ha fatto del giornalismo la costruzione di sé. Ora è più complicato, anche se i ragazzi hanno orizzonti più aperti e girano il mondo in attimo.
Il consiglio per chi si vorrebbe cimentare?
Se fossi cinico gli direi di cercare un altro lavoro, ma è anche il consiglio che ricevetti io dal primo caporedattore cui mi rivolsi. Credo sia una risposta stupida e banale, uno deve impegnarsi per raggiugnere un obiettivo: una volta avevi le testate giornalistiche come riferimento cui rivolgerti, oggi devi essere più preparato e multitasking, capace di scrivere per il web, per una rivista, una tv e magari saper montare un breve video… chi ne sarà capace in futuro avrà buone chance.
Anche sapere usare l’italiano non sarebbe male…
Quello è il requisito più importante, anche se facendo tanta pratica magari il linguaggio giornalistico arriva, lo impari. Però devi essere curioso, a prescindere dall’ambito in cui scriverai. Le scuole di scrittura ti insegnano qualche trucco ma non fanno miracoli. E in ultimo occorre anche una dose generosa di culo, che è fondamentale nella vita.
La storia più bella che hai raccontato?
L’epopea del Palaspecchi, vissuta in prima persona dagli inizi quando non lo conosceva nessuno fino al suo felice epilogo come Corti di Medoro, al centro del dibattito politico. Aver vissuto il tragitto dai costruttori al degrado, poi i tritoni di Naomo, l’abbattimento e l’inaugurazione degli appartamenti è stato epico.
Tra l’altro il nome Palaspecchi l’hai coniato tu.
È stata un’esigenza puramente grafica, doveva entrare nello spazio a disposizione per il titolo e fino a quel momento si chiamava “Centro direzionale di via Beethoven”. Essendo l’unico palazzo fatto in quel modo a Ferrara mi è venuta facile la sintesi. Quindici anni dopo Amitav Ghosh ha pubblicato un romanzo dal titolo Il palazzo degli specchi, volevo fargli causa!
Altre storie che si ricordano volentieri sono quelle legate alle persone.
Ricordo una donna marocchina che era venuta a Ferrara a trovare il marito qui per lavoro. Era incinta e non voleva trasferirsi, la bimba è nata prematura al Sant’Anna, lei era regolare perché il padre aveva il permesso di soggiorno, la madre con un visto turistico doveva però rientrare subito in Marocco. Violando la Carta di Treviso e ogni convenzione abbiamo messo in prima pagina la foto della bimba, senza censure, con un pezzo lacrimevole di denuncia. Appreso l’accaduto il Prefetto assunse la ragazza come donna di servizio, regolarizzandola per gli anni a venire. Il fatto che grazie ad un articolo si sia risolta la vita di una persona è stata una delle cose che più mi ha reso orgoglioso. Ora vivono ad Argenta, la bambina ha ormai una ventina d’anni, è bello sentirla ancora ogni tanto.
Il pezzo più difficile?
La morte di un amico: ho avuto persone a me care in politica come Brandani, Zanotti, Bertasi. Enrico Zanotti sarebbe diventato sindaco, aveva carisma, consenso e visione, ma è morto giovanissimo e scrivere quell’articolo è stato davvero pesante. Qualche mese prima eravamo andati in vacanza insieme e avevamo scattato una foto con altri amici, che poi finì nel mio articolo, scritto in modo del tutto personale. Quando capita con qualcuno che conosci bene è dura trovare le parole.
Al di fuori del lavoro, cosa ti piace fare nel tempo libero? Per anni ti abbiamo visto in versione runner appassionato sulle mura.
E ho smesso per problemi fisici e raggiunti limiti di età. Mi manca molto, ma è una passione arrivata tardi nella mia vita, ho iniziato a più di 40 anni e ho fatto la prima maratona a 44, era diventata un’ossessione come per Forrest Gump. Grazie alla corsa ho imparato però una cosa che come giornalista mi mancava: la pazienza. In generale ho la passione per lo sport, seguo la Spal dal divano, quest’anno mi abbonerò a ogni piattaforma possibile per seguire qualunque competizione. Poi un po’ di libri, la musica country e finalmente la vita da umarell in piazza…
Ti piace com’è Ferrara, da cittadino?
Finalmente potrò godermela, l’ho sempre vista in modo privilegiato ma potrò viverne la dimensione più intima: un giro sulle mura senza l’incubo di dover correre al lavoro, passeggiare per le sale del Castello, fermarmi a parlare con le persone che voglio senza fretta. Sarò curioso di vedere cosa mi capita intorno.
Come farai senza scriverne?
Non è indispensabile farlo su un giornale, si scrive anche per se stessi. Non voglio nemmeno diventare un molestatore da social ma qualche riflessione la pubblicherò senz’altro. Al giornale avevo tutela legale, ora dovrò stare attento a quello che dico e soppesare ogni parola… Vorrà dire che userò un vocabolario ricco e le metafore giuste per farmi capire da chi saprà cogliere!
4 commenti
Si segnala che il fumetto “Soffrittik”, che qui vede rappresentato Stefano Lolli, appariva sulle colonne del Resto del Carlino ed è opera di Gianni Fantoni (testi) e Donald Soffritti (disegni).
Grazie Gianni, non lo sapevo! Ho aggiunto nella didascalia l’indicazione.
🙂