La notte di Wembley è il momento che una generazione aspettava da quindici anni, troppo piccola per vivere il sogno mondiale di Berlino nel 2006, troppo assetata di rivincita dopo anni di digiuno calcistico: un mondiale saltato piè pari e un europeo ritardato di un anno per la pandemia.
Mi sono chiesto dopo ogni partita di questo mese trionfale se fosse l’anno giusto, se questo gruppo di fratelli e giovani campioni sarebbe stato quello con la mentalità giusta per riportare a casa nostra la coppa che mancava dal 1968. Tornando ogni volta con il cuore e la mente a quella sera di luglio di quindici anni fa, dove la mia generazione aveva l’età migliore per vivere e godere di un campionato dove entravamo cardinali, allo sbando dopo Calciopoli, ed uscivamo papi con Lippi e il suo sigaro.
Altri tempi. Nessuno di noi lavorava, potevamo permetterci di leggere per intero la Gazzetta al posto delle dispense dell’università, studiando formazioni, elaborando pronostici e pianificando persino la disposizione di chi si sarebbe seduto e dove, nella taverna di casa dei miei dove abbiamo affrontato oltre quindici anni a colpi di novanta minuti, nel bene e nel male. Dal Toldo paratutto del 2000, allo sguardo sornione di Byron Moreno, dai biscotti scandinavi alle vuvuzele sudafricane, dall’acqua santa del Trap alla disfatta in finale contro la Spagna, tra pizze d’asporto, birre e bandiere.
Lacrime e sudore: la storia della Nazionale si incrocia con la quella personale di ognuno di noi, dei nostri amici di sempre, in un rito collettivo che si ripete immutabile circa ogni due anni e vede i protagonisti tornare ad abbracciarsi nonostante tutto intorno sia ogni volta diverso. Siamo di nuovo campioni e questa notte è ancora nostra, anche se siamo padri, abbiamo occhiaie, mutui, mail arretrate.
Così usciamo dopo la vittoria europea in cerca di riferimenti, per partecipare al rito collettivo dei festeggiamenti, con sobrietà, senza striscioni, bandiere, perché c’è il Covid e perché non ne abbiamo avuto il tempo e nemmeno la voglia. Qualcuno lancia petardi, qualche bandiera sventola festosa, la polizia presidia le strade e costringe a caroselli obbligati: davanti al Castello Estense è impossibile passare come un tempo ma le macchine formano lo stesso serpentoni e si fanno sentire. Io indosso la maglietta del mondiale 2006, è l’unico contributo alla causa mentre pedalo verso il centro per assistere allo spettacolo. Quindici anni fa potevamo contare su un tettuccio apribile, e una notte davanti a sessione di esami ormai quasi finita, oggi ci accontentiamo di un timido giro di ricognizione, adulto, laico, per vedere l’effetto che fa.
Quella notte del cielo azzurro sopra Berlino il centro di Ferrara era pieno di gente, di bandiere e colori, c’erano i maxischermi e gli studenti fuorisede che suonavano sul sagrato del Duomo. Il 1982 era un lontano ricordo celebrato soltanto da un signore che girava sorridente con in mano una copia sbiadita della Gazzetta di un Mundial che di colpo era il passato: via Pablito, Tardelli, e Spillo, dentro Cannavaro, Totti, Fabiogrosso. Vecchi muri proponevan nuovi eroi.
L’angolo delle 4S era già caldo dalle partite precedenti, da sempre luogo naturale di ritrovo per i festeggiamenti, crocevia di storie e strade, preferito storicamente alla più grande piazza poco distante. I caroselli di auto in festa erano iniziati già dal primo turno, tanta era la voglia di rivalsa, poi via via un crescendo rossiniano fino agli atti finali. Tedesco mangia la pizza, la mamma di Zidane e così via: vi sblocco un ricordo, direbbero oggi i ragazzini.
Passare con l’auto attraverso le forche caudine di una folla festosa era un terno al lotto: venivi quantomeno fermato, scosso all’inverosimile e qualche volta perfino violato di quel poco di privacy. Qualcuno apriva i cofani e si sedeva nel bagagliaio, qualcuno saliva sul tettuccio, senza alcun controllo. Le persone intrappolate dentro non sapevano se esultare o avere davvero paura. Sfilavano in quattro su uno scooter, lanciavano fumogeni dai finestrini, passavano camioncini colmi di ragazze urlanti con la faccia dipinta. Un paio di persone avvolte nel tricolore si buttarono nel fossato del Castello per fare il bagno, senza alcuna paura, chissà se oggi hanno fatto il vaccino oppure temono gli effetti collaterali. Finirono persino sull’Espresso, a suggello di un’Italia che aveva bisogno di reagire, di tornare a sorridere, ignara degli anni di crisi che sarebbero arrivati di li a poco.
Così il primo posto che ci è venuto in mente di controllare l’altra sera è stato proprio il Castello, per capire la temperatura di questa nuova festa: tutto tranquillo, dalla cancellata su corso Martiri riemergono i Vigili del Fuoco che hanno impedito ogni follia. I gruppi di tifosi radunati al solito posto sembrano meno, tra la Camera di Commercio e il Teatro, non arrivano al Roverella come altre volte. Le auto non passano di qui, meglio così. Le bandiere ci sono, ma in confronto quel pomeriggio della SPAL in serie A è stata un’apoteosi. Sembra quasi che in tanti siano qui per vedere cosa succede, per il piacere di festeggiare, non importa poi cosa di preciso. Nessuno striscione, nessuna coreografia studiata a casa. La piazza è un viavai di gruppetti che esultano e inneggiano ai nostri undici, ma l’area transennata per il Summer Festival impedisce di fatto di utilizzarla. Nonostante la sobrietà dei festeggiamenti le mascherine sono davvero troppo poche, qualcuno timidamente la indossa ma sono mosche bianche, che siano già tutti vaccinati e tranquilli? Parte qualche fuoco d’artificio, il classico popopo che ci portiamo in giro proprio da quel 2006, ma la gente sfolla relativamente in fretta.
L’emozione di un Europeo smorzata da un periodo difficile da cui non siamo ancora fuori: certo Ferrara non è Roma o Napoli, dove scene di follia collettiva si sono viste eccome, ma ci siamo dimostrate persone tutto sommato civili e corrette e dobbiamo esserne fieri. Torneremo ad abbracciarci insieme un altro giorno, in tempi migliori, magari già nel 2022 con il mondiale invernale del Qatar: ve li vedete i tifosi accalcarsi con il parka e il vin brulè? Con buona pace di noi giovani umarell, che possiamo intanto continuare a dire che era meglio quell’altra volta, che noi c’eravamo e lo ricordiamo bene.