“Quando ero giovane collaboravo con alcune band in voga, di cui non ricordo il nome. Mi ha sempre stupito il singolare rapporto che avevano instaurato con il loro pubblico: durante i concerti era abitudine che la platea lanciasse sul palco i più vari oggetti e che il gruppo li raccogliesse e li rigettasse verso la folla. Non c’era ostilità, intenzione di umiliare o fare del male, era solo un loro modo di comunicare, opinabile, ma pur sempre il loro. Il mio compito era di dare inizio a questi concerti con tre o quattro assoli: voce e chitarra, e questo solo. Ma la folla era in fermento, non gli importava di me, perché era troppo impaziente di iniziare quel mutuo rapporto di lanci di oggetti. Spesso infatti non arrivavo a terminare neanche il terzo pezzo. Tutto questo per dire che, grazie a quell’esperienza, in fondo una cosa l’ho imparata: da quel momento, per cominciare i miei concerti inizio sempre con l’assolo, e ho anche capito che i pezzi devono essere tre, non oltre, se no rischio di vedermi tirare qualche altro improbabile oggetto sul palco“.
Esordisce così, Francesco De Gregori, “il principe della musica italiana”, il suo concerto al Ferrara Summer Festival, con solo la sua voce, una chitarra in mano, e tre assoli.
E d’altronde De Gregori si sa, cantante-poeta, dall’alto della sua inestimabile esperienza, non si risparmia nel dialogo con il pubblico, raccontando aneddoti, storie, un po’ della sua vita. Restituisce una sensazione di vicinanza, di coinvolgimento, di autenticità, troppo assente negli scorsi mesi di lockdown, in cui l’idea di un concerto dal vivo, della musica nei timpani, dei brividi sulla pelle appariva un miraggio e un desiderio lontano.
Per il “Principe”, il suo non è mai stato solo un mestiere ma qualcosa che va oltre, una vocazione, un richiamo, un istinto, qualcosa gli premeva da dentro fin dal momento in cui imbracciò quella chitarra e iniziò ad esibirsi davanti al pubblico sotto la spinta del fratello Luigi. Figlio di un bibliotecario e di un’insegnante di lettere, De Gregori si lascia ammaliare dall’energia prorompente del Folkstudio di Trastevere che gli farà conoscere, tra gli altri, molte delle voci che hanno segnato un’epoca, come Antonello Venditti. Dopo anni di collaborazioni ed esperienze, inizia però a sviluppare uno stile tutto suo, ermetico ed introspettivo, quello del ritratto femminile e della commistione dell’alto con il basso, che finirà per essere il marchio distintivo della sua musica, una musica diversa, ibrida, complessa, che da una parte strizza l’occhio al rock, dall’altra alla lirica. Il suo modo unico di interpretare i pezzi, quei testi tanto veri da fare persino paura per quanto di se stessi ci si ritrova. Quelle parole profonde, talvolta taglienti, sicuro uniche.
È stato possibile percepire durante tutto il concerto la voglia, quasi un bisogno viscerale, di vivere il “live” e le emozioni che da questo scaturiscono, il contatto con il pubblico, ma in assoluto, si è percepito un profondo senso di riscatto. Quello che fino a pochi mesi fa era miraggio lontano ora è diventato realtà, una parvenza di normalità, di vita. Non mancano durante il concerto i grandi successi come Rimmel del ’75, dall’album omonimo, uno dei più veduti del decennio, con brani come Pezzi di vetro, Pablo e Quattro cani. Poi i più importanti pezzi di Titanic del 1982, come La leva calcistica della classe ’68, o del primo album Alice non lo sa; poi Generale, Sempre e per sempre, Buonanotte fiorellino, e La donna cannone, che regala al suo pubblico dagli occhi lucidi, come perla finale.
Delicato, impetuoso, sensibile e permaloso, aperto al dialogo e alle critiche – come quella mossagli a suo tempo dalla Chiesa per il brano Agnello di Dio – Francesco ringrazia con la mano sul cuore il suo pubblico, che esulta in un lungo applauso e una standing ovation. Un inno all’esperienza, alla storia di una vita, a una musica che ha segnato un’epoca. Francesco è però rimasto sempre fedele a sé stesso, ai suoi soliti occhiali fumé e al cappello a tesa stretta, alla passione e all’energia che riesce a trasmettere sul palco come se il tempo non fosse passato mai.
È rimasto fedele anche al suo temperamento non scontato, Francesco, a quell’impegno personale mai omologato che lo ha da sempre contraddistinto. È uscito di recente un suo articolo su Repubblica, in cui prende posizione circa la grave situazione del mondo dello spettacolo nell’era Covid-19, denunciando la disattenzione e noncuranza delle istituzioni, e chiedendo ironicamente un “Ministero del Divertimento” da affiancare al Ministero della Cultura per occuparsi dell’industria musicale in blocco. Una sua sfida alla “musica leggera”, lui che è il meno leggero della musica leggera.
E lo si capisce dai suoi brani, eterni ed immortali che ieri sera abbiamo potuto nuovamente riassaporare. Ci fanno capire che la bellezza della Musica supera e va oltre ogni forma di ostacolo e diniego: intatta nel suo essere superiore, sopravvive anche al difficile momento storico che stiamo affrontando.
La musica come inno alla speranza, è forse questo, il concetto più profondo che Francesco De Gregori ieri sera ci ha regalato.