Il nuovo film del regista bolognese Fabio Donatini, “San Donato Beach”, fa parte della selezione ufficiale di opere in concorso alla sesta edizione del Ferrara Film Festival, che si terrà dal 29 maggio al 6 giugno 2021. Sarà il primo festival cinematografico maggiore a svolgersi in presenza. Il film San Donato Beach, prodotto dalla Zarathustra FIlm, sarà in gara nella sezione “E.R. Filmmakers”.
San Donato è un quartiere situato nell’immediata periferia di Bologna, dove Fabio Donatini abita da anni. Il film è composto dai ritratti dei personaggi che popolano il quartiere, presenze abituali nella vita quotidiana del regista. Servendosi di una troupe ridotta al minimo e di attrezzatura leggera, Donatini riesce a muoversi in totale libertà tra le strade della periferia scoprendo un linguaggio visivo essenziale e intimo, il più adatto a rivelare l’essenza dei suoi personaggi.
Fabio, la prima domanda è scontatissima: come è nata l’idea di questo docu-film? Perché la scelta del setting è ricaduta proprio sul quartiere San Donato a Bologna?
Avevo la necessità di raccontare il concetto di solitudine, cos’è e cosa determina, come ci rende peggiori e migliori. Ci siamo accorti che San Donato (dove vivo quando sono a Bologna) ad agosto si svuota completamente e assomiglia al setting di un film western, con tutta la sua cosmologia: i saloon col pianoforte diventano bar semi aperti con la radio sempre accesa, i cavalli sono le auto parcheggiate, i duelli sotto il sole sono le gare di spritz, i sentieri per arrivare alle miniere d’oro sono le strade vuote e desolate del quartiere. Ci è sembrato il luogo perfetto.
Come hai individuato i protagonisti del tuo film? Mi è sembrato di capire che sono tutti clienti di vari bar della zona.
Esatto, li conosco da circa 5 anni: qualche estate fa ho abbinato la mia solitudine alla loro e insieme abbiamo trovato una sintassi filmica giusta per raccontarla. Sono stati loro a scegliersi, a indicarci come raccontare le loro storie. Il concetto di autore è sopravvalutato, si
tratta sempre di un lavoro collettivo, intessuto di identità plurime che trascendono l’idea monolitica del regista/autore onnipotente.
È stato facile farli parlare? Come hai condotto le interviste?
È stato facile come far parlare chi non parla da tempo pur sentendosi protagonista di qualcosa. In certi momenti di sofferenza era giusto che fosse difficile, è giusto che nel film alcune domande restino senza risposte. All’inizio erano un po’ spaventati dalla macchina da presa. Ho trovato faticoso ammettere che le vedevo come persone sole e che volevo sentire la loro solitudine. Dicendogli la verità e cioè che anche io ero solo, la situazione si è sciolta. L’improvvisato, fatto di fallimenti, speranze, gioie, vita di tutti i giorni, ha reso il tutto più sorprendente.
I temi che sviscerano con trasparenza i protagonisti sono toccanti: la solitudine, il bisogno di essere amati e apprezzati, la necessità di relazioni umane, di scambio, di comunicazione. Ma anche la ludopatia, l’abbandono, la malattia mentale… Uno spaccato forte, vero e intimo. Sono sentimenti che nelle periferie si concentrano?
In parte credo siano comuni in tutte le periferie. Sono presenti nel centro storico, certo, ma la periferia è zona di confine, si mescolano status symbol e impatti valoriali delle esistenze umane, sono luoghi di passaggio, la gente parla e si confronta. È confine tra il centro borghese, medievale, turistico e il territorio della provincia, bucolico, fatto di valori un po’ diversi, meno di facciata ma non per questo privo di problematiche, dall’altra. La periferia fa da ponte tra queste due entità. Se in queste zone le relazioni umane di scambio e comunicazione sono più presenti forse è perché la periferia le accetta, senza tante questioni.
Qual è il ruolo del silenzio nel tuo film?
Puoi divertire lo spettatore, puoi spaventarlo, puoi farlo godere… ma se vuoi mostrargli e fargli sentire la noia, servono strategie di grammatica adatte. Noi abbiamo usato il silenzio, i grilli e l’allargamento dei tempi, il poco che succede all’interno della situazione di una persona che vive in agosto, da sola, le sue giornate in periferia dove la solitudine e la noia sono vere e non c’è forma di autoillusione.
San Donato è a Bologna ma è come se fosse già un altro luogo… Cosa rimane lì della città e cosa è invece peculiare del luogo in sé?
San Donato è Bologna perché la gente tifa il Bologna, permangono ricordi di una città glamour e maledetta, quella degli Anni ’60 e ’90. C’è un approccio fatalista all’esistenza, l’accontentarsi delle piccole cose e il vivere alla giornata è diventato faticosamente un mantra collettivo. C’è una grande libertà. Oltre all’amore per il calcio, per il concetto di bar, riscontro l’assenza di filtri legati allo status economico e sociale delle persone, il disinteresse per la categorizzazione, che può spaventare o rendere libero.
Mi ha colpito l’attaccamento viscerale che le persone sentono per il loro quartiere, nonostante le situazioni spiacevoli che vivono. Come mai questo senso di appartenenza?
Le location determinano l’atteggiamento esistenziale delle persone. Il senso di appartenenza è quasi sempre un senso di amicizia verso un posto. Le persone di San Donato, proprio per il loro fatalismo, si equilibrano tra disperazione da un lato e pausa dalle inquietudini della vita dall’altro. San Donato ti taglia le gambe quando ti elevi troppo, non ti fa montare la testa ma allo stesso tempo ti rialza quando tocchi il fondo senza mettere il coltello nella piaga. Si finisce per essere amici di un posto come questo.
Il film è in programma al Ferrara Film Festival. Hai mai avuto modo di “vivere” questa città?
Stiamo proprio facendo di recente dei sopralluoghi a Ferrara, riscontro nella cosmologia ferrarese tanti elementi che ci piacerebbe affrontare nei prossimi lavori. Ho anche un ricordo in particolare: circa 15 anni fa studiavo a Bologna e ho conosciuto la poetica di Antonioni. “Cronaca di un Amore” e “Deserto Rosso” mi hanno molto influenzato, da ragazzo di 23-24 anni che si appassiona al linguaggio del cinema. Mi chiedevo come si facesse a diventare autori così bravi, che ruolo avesse in questa bravura la città di un autore, quanto contasse Ferrara nella svolta linguistica intrigante di Antonioni. Una domenica di pioggia, da solo in auto andai a Ferrara, avevo annotato alcune scene viste nei suoi film e che volevo rivedere nel mio presente per coglierne l’essenza. Non si può non considerare l’influenza di Ferrara come città in tutto questo, sento inoltre un certo affetto per la zona perché le location sono particolarmente adatte al modo di concepire il mio lavoro.
Ferrara è città ma è provincia, a volte sembra immobile e pur amandola alla follia c’è il rischio di sentirsi invischiati. Come ti senti tu a Bologna?
A San Donato sto bene, ma è una cosa che ho ottenuto col tempo. San Donato non mi invischia ma mi ha invischiato. Mentre facevo il film ho capito che è il posto in cui devo vivere. Amo alla follia San Donato, non amo alla follia Bologna. Da Bologna come concetto mi sono distaccato un po’ di tempo fa, Bologna la grassa, Bologna dove studi, dove ci sono le feste, il centro storico. Sono momenti della vita: si vive con particolare intensità una certa zona invece di altre, al momento posso dire di star bene qui. Ma del resto San Donato è Bologna e se non ci fosse Bologna non ci sarebbe neanche la sua periferia.
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SAN DONATO BEACH è in programma al Ferrara Film Festival martedì 1 giugno alle 20.30:
https://www.ferrarafilmfestival.com/filmprogram.html
Fabio Donatini ha studiato semiologia del cinema e della musica presso il DSC dell’Università di Bologna. Ha lavorato per l’ITC Movie, Pavonificio Ghinazzi, Cineteca di Bologna, Bottega Finzioni, Bottega Produzioni, Articolture, Mammut Film e per la Zarthustra Film. Segue e organizza corsi per avvicinare la disabilità psichica e motoria alla recitazione e al set. I suoi lavori più importanti sono: “L’ispettore Coliandro”, “Tuber – la saga del Pico bianco” , “Il Boia/I principi dell’Indeterminazione”, “Le muse inquietanti” e “Chemio”. In fase di finalizzazione il suo ultimo docu-film sul lockdown della primavera 2020. È autore, sceneggiatore, regista e produttore.