Signor Adello Vanni, con tutto il rispetto, come le è venuto in mente di scrivere un libro di psicanalisi su un mio quadro? La ritengo una cosa almeno riprovevole.
Siamo in una stanza immaginaria, dove per una curiosa legge del contrappasso Giorgio de Chirico ha la possibilità di interrogare Adello Vanni, psichiatra e per diversi anni direttore del dipartimento di salute mentale di Ferrara, sull’origine di questo libro, uscito da poche settimane per Giraldi Editore.
“Egregio De Chirico, le spiego subito e con enorme rispetto. Non ci conosciamo di persona, ma l’ho rincorsa per diversi anni. Deve sapere che ho iniziato a lavorare da psichiatra come assistente negli anni Settanta, prima della ben nota riforma conseguente alla legge Basaglia e proprio negli anni in cui si doveva chiudere il manicomio. Entrando nella struttura, allora un vero e proprio ospedale psichiatrico, un collega mi disse: – ma tu sapevi che De Chirico era stato ricoverato in manicomio durante la prima guerra mondiale? -“
Per quel che ho capito, vivete in questo nuovo secolo in una epoca di grande disinformazione. Vedo che avete questo Internet, ma ci capite poco: non è questa la verità.
Ma vede, signor De Chirico: per questo siamo qui. Io sono la sua tesi difensiva. Svolgendo alcune ricerche ho scoperto che lei non fu ricoverato al manicomio della città, ma ad Aguscello in un centro neuropsichiatrico, in quella che attualmente è la Città del ragazzo. Allora, con la prima guerra mondiale era insorto un fenomeno nuovo: le nevrosi da guerra. Molti soldati, a seguito di quelle esperienze sviluppavano situazioni simili e venne creata questa struttura, diretta dal professor Boschi, vicedirettore del manicomio di Ferrara. Lui era un grande appassionato di arte e quando incontrava dei soldati come De Chirico e Carrà, che erano ormai in difficoltà nel lavorare in guerra come scritturali e avrebbero preferito dipingere, con qualche diagnosi di comodo li faceva entrare nel centro neuropsichiatrico, concedendo loro tre o quattro mesi di tempo libero con la possibilità di dedicarsi alla loro arte.
Ammetto che fino a questo punto la sua ricostruzione è corretta!
Se mi conferma, è in questo contesto che vennero prodotti diversi quadri della metafisica ferrarese. E ora le spiego, signor De Chirico: io sono uno psichiatra e ho interesse per le opere in termini psicobiografici. La psicobiografia vede un’opera d’arte come un’opera stratificata. Quando un artista produce un quadro pensa sempre in maniera stratificata, ha diverse ispirazioni che lo muovono. Tutte queste ispirazioni si condensano nel quadro che analizziamo: la dimensione pittorica, l’elaborazione della metafisica, la dimensione ebraica del quadro, le dimensioni simboliche. Ogni piccola parte del quadro ha un significato particolare: un’alfabeto del linguaggio metafisico. Scendendo, ci sono delle motivazioni personali.
La piega della sua analisi non mi piace per niente: non scenda nel personale.
Mi permetta, per rispetto del pubblico. Durante la realizzazione del quadro “Le muse inquietanti” il suo animo era inquieto: lei, De Chirico era innamorato di una donna, Antonia Bolognesi, che pure sapeva che la madre non gli avrebbe mai concesso di sposare.
Sua madre, Gemma, era una donna molto fallica (sicura di sè, ndr) e avrebbe preferito un matrimonio pomposo: lei era una nobile, abbastanza ricca come eredità.
Non oltrepassiamo certi limiti. Piuttosto, quello glielo concedo, spieghi perchè parla di Vergini Inquietanti e non muse inquietanti, se è così sicuro di sé.
È documentato: in una lettera che lei ha scritto a Carrà, lei stesso dice “ho finito da poco di dipingere un quadro che chiamerò Le Vergini Inquietanti“: era la sua prima idea. In un articolo del 1919, lei credo fosse ancora nella nostra città, il suo collega Filippo De Pisis aveva descritto le sue idee originarie: lei pensando al titolo le vergini inquietanti si rifaceva al mito della dea Vesta. Nella mitologia la dea aveva due sacerdotesse vergini, le vergini vestali e sommando il titolo all’articolo di De Pisis, viene fuori qual’era l’idea originaria del quadro a livello conscio.
A livello inconscio o semiconscio c’era quella idea di inquietudine, quelle due vergini vestali, quelle due muse in realtà erano contemporaneamente non solo un riferimento alla mitologia, ma anche la preoccupazione per le sue due donne più importanti, la madre e Antonia, di cui era innamorato.
Caro strizzacervelli, se le dovessi dire cosa ho in mente ora, mi sa che non farei la figura della persona educata.
Sa, De Chirico, dai miei studi ho capito che lei era molto attratto dalla psicanalisi ma non lo voleva dire, o forse ammettere: i suoi segreti preferiva tenerli con sè ed eventualmente rivelarsi in maniera dissimulata. Lei non volle mai avere uno psicoterapeuta, anzi prendeva in giro altri colleghi, i surrealisti, che al suo tempo addirittura approfittavano del viaggio di nozze per conoscere quel nuovo signore chiamato Freud!
Strizzacervelli, togliti dalle palle. Vorrei sperare che con la psicanalisi abbiamo concluso.
In realtà, sto scrivendo un altro libro, questa sarà una trilogia. Il secondo lo vorrei chiamare “Perchè Ferrara non è metafisica ma… potrebbe diventarlo” già pronto al novanta per cento. Ci sarà un terzo libro dedicato alla metafisica, che potrebbe chiamarsi frammenti di metafisica nel quotidiano ferrarese.
Dottor Adello Vanni, le direi che ha detto un bel pò di balle da strizzacervelli. Forse ci è andato vicino, ma non glielo dirò mai: la seduta è conclusa e non ce ne saranno altre.
INFO
Adello Vanni, Le muse e le vergini inquietanti di Giorgio de Chirico. Uno psichiatra alla scoperta della Metafisica ferrarese, Giraldi Editore