Il nome di Paolo Bruschi suonerà familiare a tante persone a Ferrara, dopo una vita di incarichi manageriali, dall’Arci a Fininvest fino alla fondazione dell’agenzia di comunicazione Segest e poi due anni come vicedirettore generale di Poste Italiane. Una vita in movimento fino a qualche anno fa, quando ha deciso di tornare ad apprezzare la terra di casa, scommettendo su una coltura innovativa: il bambù.
È un’erba perenne legnosa, appartenente alla famiglia delle Poaceae, che conta a sua volta oltre diecimila specie. È originario delle regioni tropicali e sub-tropicali d’Oriente, ma si adatta perfettamente a vari tipi di clima, compreso quello ferrarese. La duttilità e la versatilità del bambù hanno permesso la sua veloce affermazione nel mercato italiano e, ad oggi, costituisce una vera e propria filiera in grado di attrarre investitori e agricoltori pronti a cimentarsi con nuove tecniche. Dietro la coltivazione di questa pianta affascinante si nota però l’impronta di Paolo, ossia la sua attenzione alla tutela dell’ambiente.
Siamo tra via Pontegradella e via Caretti a Ferrara. L’impianto di nuova generazione sfrutta moderne tecnologie di fertirrigazione a goccia, per minimizzare gli sprechi e la concimazione è rigorosamente biologica. A comprovarlo sono le tonnellate di compost di foresta con cui l’imprenditore sta arricchendo il suolo, ove progressivamente procederà alla posa di nuove piante. Alla fine saranno circa 180 mila piante, per 12 ettari circa, che potranno essere tagliate alternativamente garantendo la loro completa rigenerazione per almeno un secolo.
L’avvenierismo del progetto è stato eliminare i vecchi motori diesel, solitamente utilizzati per la captazione dell’acqua a uso agricolo, con l’alimentazione elettrica. Ciò garantisce certamente un minimo impatto all’ambiente, sempre nell’ottica della miglior tutela e del massimo rispetto del territorio che l’imprenditore ha voluto improntare. Le colture di bambù, per altro, mal si prestano alla meccanizzazione, e richiedono una buona dose di lavoro manuale.
Il contributo ambientale di questa coltivazione biologica sarà notevole, considerando che un ettaro di bambù sottrae 17 tonnellate annue di CO2 dall’atmosfera.
Tra quelle già messe a dimora vi è la varietà Moso, una delle più grandi, in grado di raggiungere tra i 18 e i 25 metri.
Il germoglio di bambù, o rizoma, è sempre commestibile e vanta ottime qualità organolettiche, ma il migliore che l’imprenditore coltiva e suggerisce è il germoglio della specie Dulcis, capace di produrre getti edibili di oltre un chilo.
Tutto il campo adibito a bambù è stato seminato pure con trifoglio nano. Al di là della bellezza estetica, simile ad un prato all’inglese, il trifoglio si dimostra un ottimo pacciamante, utile a trattenere l’umidità del suolo ed evitare la proliferazione di infestanti, risulta inoltre un’erba ideale per le consociazioni, aiutando a veicolare i nutrienti e stimolare la crescita delle piante.
La sinergia prosegue perchè nel cultivo è presente anche un frutteto, che progressivamente si sta portando al metodo biologico, ben dodici arnie di api, inserite tra rigogliose piante di camomilla selvatica, di cui Paolo decanta le qualità rilassanti, al limite del sedativo.
In futuro il terreno ospiterà anche galline e anatre corritrici, per favorire il controllo degli insetti dannosi e per la produzione di uova. I volatili verranno poi lasciati all’aperto e nutriti con gli scarti della lavorazione del bambù e, ciliegina sulla torta, con semi di grano e grano turco antichi coltivati proprio nel fondo, favorendo così l’economia circolare e garantendo minimi sprechi.
Paolo, neo-imprenditore del bambù, pare una mosca bianca nel panorama circostante, in cui domina la cultura intensiva, che prevede l’ampio utilizzo di prodotti chimici, lo sfruttamento di monoculture e causa inevitabilmente l’impoverimento del suolo e della biodiversità.
Secondo lui “non si tratta di una scelta libera, è piuttosto una scelta obbligata se si vuole garantire un futuro alla nostra esistenza e quella delle prossime generazioni. Non si può continuare a coltivare utilizzando la chimica, o mangiando antibiotici in continuazione se si ha a cuore la salute e l’ambiente, è una scelta che andava fatta almeno quindici anni fa. Spero che oggi vi sia una nuova attenzione verso queste pratiche”.
L’agricoltura intensiva affermatasi nell’ultimo cinquantennio ha cambiato radicalmente il paesaggio e l’ambiente dei nostri territori, eliminando progressivamente gli alberi divisori dei campi e quelli a protezione delle sponde dei corsi d’acqua, omologando la diversità culturale ad ettari di monocolture, oggi protette da palizzate di cemento e reti di plastica antigrandine, standardizzando e massimizzando ogni produzione agricola e spingendola fino al limite, senza considerarne mai i costi ambientali. Il lascito di questa cultura antropocentrica è evidente, rimasto registrato nel suolo sempre più arido e infertile, a rischio desertificazione.
Esattamente il contrario di quanto avviene con l’agricoltura organica improntata da Bruschi, che migliora le caratteristiche del suolo, rendendolo più ricco e nutriente grazie all’inoculazione di compost e altri fertilizzanti biologici.
Tra il bosco di bambù che crescerà, le consociazioni di piante e specie animali, quella di Bruschi appare una visione virtuosa dell’agricoltura, più che una semplice coltivazione innovativa di una pianta così versatile.
Eppure il bambù pare si appresti a sostituire tante materie prime, più costose e impattanti. Per l’imprenditore ferrarese “il mercato che verrà aggredito prossimamente sarà quello del legname, se non vogliamo radere al suolo tutte le foreste del mondo sarà necessario implementarlo e comprendere come usare questo sostituto bio, rinnovabile, con bassissimi costi ambientali sia meglio che tagliare ettari di boschi e foreste”.
Tra i bambù che meglio si prestano come alternativa al legno, i migliori e più duttili sono le specie Madake e Moso, valenti per realizzare qualsiasi struttura, come scale, parquet, mobili, ma anche stoviglie e piatti riutilizzabili, canne da pesca, addirittura telai per biciclette.
Anche il settore alimentare vedrà aumentare la produzione di bambù edibile, considerate le sue proprietà nutritive, essendo ricco di aminoacidi e vitamine A, B6 ed E.
Con tali presupposti, il futuro del bambù estense è retto da solide fondamenta, che sosterranno il progetto green dell’imprenditore.
“Non sopporto chi mi da del sognatore”, sostiene Paolo Bruschi, “si da del sognatore a chi fa voli pindarici lontani dalla realtà, per relegarlo ad un ruolo a se stante, o per fini autoreferenziali. Vorrei piuttosto che in Emilia Romagna si capissero le potenzialità di questa coltura. Se si coltivassero 1.000 ettari di bambù, pari allo 0,07% del patrimonio agricolo regionale, si produrrebbero 30 milioni di piante da destinare agli usi più vari, sostituendo il legname utilizzato attualmente. Infine, con gli scarti della lavorazione delle piante si produrrebbe pure bioplastica. Si tratta di progetti concreti e realizzabili, che portano benefici evidenti per la popolazione e l’ambiente. Perciò non chiamatemi sognatore. Tirate fuori la grinta e gli attributi piuttosto e fate anche voi scelte diverse e coraggiose, è l’invito che rivolgo ai giovani, per il loro futuro”.
2 commenti
Molto interessante e credo che questa possa essere una delle vie per uscire da quel tunnel che è diventato il nostro mondo avvelenato dalla chimica
Complimenti Paolo, progetto interessantissimo. Scelta coraggiosa e di grande responsabilità.
Un grande in bocca al lupo.