Vasco Brondi, cantante ferrarese conosciuto artisticamente con il progetto “Le Luci della Centrale Elettrica” qualche anno fa ha scritto una meravigliosa canzone intitolata “Le Ragazze Stanno bene“: un racconto fatto di striscianti immagini di sofferenza e dolore nella cornice di una relazione tra due donne, che trovano la pace nel loro mondo chiuso, nel loro sentimento, barriera protettiva da ogni ingiustizia subita nel mondo esterno: disparità, esclusione, giudizio, violenza.
E pensa: / Guarda qui ci sono tutti i miei punti deboli / Guardami mi lascio dietro degli spazi bianchi. […] Forse si tratta di fabbricare quello che verrà / Con materiali fragili e preziosi, senza sapere come si fa.
le ragazze stanno bene, le luci della centrale elettrica.
Ieri era l’otto marzo, la giornata internazionale della donna. Una giornata che esiste da oltre cento anni, dal 1909 per la precisione e il fatto che sia ancora uno temi centrali di discussione pubblica fa capire quanti pochi passi in avanti l’umanità abbia fatto. Seppure siano passi da gigante, la generale asimmetria tra uomini e donne è ancora ben presente anche nelle grandi democrazie e non serve dirlo in un paese che non ha mai avuto un presidente del consiglio o della repubblica donna. Mai, in tutta la sua storia.
Abbiamo deciso di volgere lo sguardo verso questo tema in due direzioni: una fisica, con una scultura, e una fatta di dure, aspre, parole, con una intervista che ci avvicina ad un nuovo weekend di Internazionale a Ferrara: ancora in streaming, purtroppo.
La “Maestà sofferente” trova casa a Ferrara
Concepita e realizzata sul finire degli anni Sessanta, la “Maestà Sofferente” è ora patrimonio di Ferrara.
Incontriamo casualmente Vittorio Sgarbi nei paraggi dell’opera, colui che ha organizzato l’operazione insieme al Comune di Ferrara, e scopriamo che questa enorme, imponente scultura arriva per rimanere in Fiera, all’ombra di quello che per almeno un anno sarà il padiglione principale delle vaccinazioni anti covid: un simbolismo forte, per quanto non immaginato dall’inizio.
Di fronte al nostro dubbio sulla posizione periferica, Sgarbi conferma che nelle sue idee originarie questo dono alla città di uno dei più grandi scultori e designer italiani, Gaetano Pesce, avrebbe dovuto essere posizionato in luoghi centrali: piazza Ariostea, il Listone, quell’angolo di Mura in cui termina Ercole Primo d’Este, dove c’è il tiro a segno o la prevista rotonda di piazza San Giovanni, sfumata all’ultimo. Ma per scelte politiche o necessità urbane alla fine ha trovato casa in questo luogo, simbolo di speranza per uscire dalla pandemia, che si accinge già nei prossimi mesi ad ampliarsi con nuove opere che andranno a formare un Giardino delle Sculture, a cielo aperto, libera esposizione visitabile a disposizione della città.
E questa “Maestà Sofferente” è davvero qualcosa che reca dolore: trafitta da decine di frecce e minacciata da animali pericolosi, questa enorme forma che richiama il corpo femminile pare il simbolo di una gigantesca resistenza senza confini ad un mondo ostile. Pare l’umanità di oggi: resistente, eppure ferita e quel sole che ne proietta l’ombra sui padiglioni dove si eseguono le vaccinazioni ci pare almeno un segno: forse di speranza, almeno in prospettiva.
Uno spaccato di realtà, verso un altro weekend di Internazionale a Ferrara con Chadia Arab
Chadia Arab, per ovvie necessità ancora in streaming, sarà una delle ospiti del prossimo weekend di Internazionale a Ferrara. La sua testimonianza si lega esattamente al tema della donna nelle sue difficoltà quotidiane e mette in luce un fenomeno marginale nel dibattito pubblico italiano: le donne che migrano dall’Africa per lavorare nelle campagne.
Grazie Chadia di aver trovato tempo per anticiparci alcuni temi dell’incontro di domenica. Nella narrazione italiana esistono illegalità e sfruttamento nel duro lavoro di raccolta nelle campagna ma si parla normalmente di uomini. Nel tuo libro parli molto della rotta spagnola, esiste un fenomeno anche italiano?
L’intersezione tra lavoro femminile e migrazione rimane ancora poco conosciuta e poco visibile. Ci sono in Europa delle ricerche sulle donne nel campo dell’agricoltura, ma sono molto recenti. Fino a meno di 20 anni fa, nessuno sapeva molto sulla migrazione femminile legata al mondo del lavoro. Abbiamo pensato che gli arrivi fossero legati a un contesto familiare, per matrimonio, al seguito di un marito. Tuttavia, molti studi ora mostrano che le donne sono attivate – spesso da sole – dagli anni Sessanta in poi, a lavorare, studiare, resistere e migliorare il corso della loro vita e le loro condizioni.
Le opere di Fatima Ait Ben Lmadani e Nasima Moujoud, due colleghe sociologhe, sono pioniere nella ricerca della condizione delle donne marocchine che arrivano sole in Francia e in Italia per lavorare. In Francia, il lavoro della storica Sylvie April ha dimostrato che il lavoro delle donne in agricoltura non è recente, studiando la migrazione delle donne polacche negli anni ’30 come “contadine in fattoria” nell’Indre e nella Loira. Oggi sappiamo che la migrazione femminile è importante: le donne rappresentano la metà dei migranti. La questione delle donne che migrano si inserisce così nella problematiche più ampie dei rapporti di classe, di genere e di razza. In Italia ad esempio più di un terzo di coloro che lavorano nell’agricoltura sono donne. Ma rimangono ancora appena visibili: si parla principalmente di uomini nel lavoro agricolo.
La comunità marocchina è la seconda comunità in termini di importanza in Italia. L’anno scorso, in pieno contenimento e chiusura delle frontiere a causa del covid19, l’Italia, come altri paesi, ha consentito l’ingresso di diverse centinaia di marocchini per supplire all’esigenza agricola in crisi a causa della pandemia, regolarizzando i lavoratori migranti per rispondere a questa carenza di manodopera. Questa realtà ha mostrato la necessità della migrazione per i paesi europei. Nel settore agricolo, come in altri settori, è necessario essere vigili sui diritti dei e delle migranti. Il sindacalista Aboubakar Soumahoro, che ha introdotto il mio libro, denuncia quotidianamente atti di violenza, discriminazione, maltrattamenti, abusi, lavoro informale di cui soffrono i lavoratori e le lavoratrici agricoli in Italia.
Negli ultimi anni abbiamo letto e visto nuovi gruppi di donne combattere per i loro diritti (sto pensando ad esempio al movimento #Metoo). Normalmente però sono persone bianche e di potere, con possibilità di grande influenza. Tu parli invece di storie di donne che non hanno potere: hai incontrato storie di gruppi che si sono riunite per lottare per migliori condizioni di vita? Come possono riuscire a rendere più forte la loro voce?
Le persone che twittano, che scrivono e sono visibili nella sfera pubblica sono spesso donne d’elite, spesso anche donne bianche. Ma esiste anche un movimento che si sta organizzando, dove parlano donne vittime di razzismo per far sentire la loro voce. Ad esempio, per il caso delle donne delle fragole, abbiamo visto apparire una resistenza intersezionale. Nel marzo 2018, un gruppo di dieci donne ha accusato i loro datori di lavoro di molestie. Le loro parole sono state messe in dubbio, sono state minacciate di espulsione se avessero osato parlare, resistere o combattere contro la violenza a cui erano sottoposte, in un contesto di silenzio da parte degli Stati, che tuttavia sono dietro la loro partenza.
Una marcia di supporto si è tenuta il 17 giugno 2018 a Huelva (Spagna) riunendo migliaia di persone, facendo emergere queste “signore della fragola” dall’ombra, sostenuta da sindacati agricoli, associazioni femministe e associazioni di diritti umani e diritti dei migranti sotto una bandiera comune. È la prima volta che ha avuto luogo una simile mobilitazione.
Sono sostenute da unioni agricole, associazioni femministe, associazioni di diritti dei migranti e diritti umani che riuniscono mille persone, un risultato storico perché coinvolge lotte antirazziste e femministe. Fino ad allora i movimenti femministi bianchi spagnoli non erano interessati alla causa dei lavoratori stagionali marocchini. Si sono espressi diversi coordinamenti e personalità e le donne famose in Spagna sono indignate, come la scrittrice Lucia Etxebarria che scrive una rubrica sul quotidiano El Periodico intitolata “Se sei una femminista, non comprare le fragole”. In questa occasione, riprende la retorica delle lotte intersezionali: fornisce anche esempi di lotte di donne nere come Rosa Parks sostenute da donne bianche o solidarietà di gruppi di migranti che raccolgono uva in California. Un’altra rubrica è quella del Paìs firmata dalla femminista antirazzista Pastori Filigrana coinvolta in molti movimenti e associazioni. Figlia di gitani e operai, dice di essere sensibile al destino e all’ingiustizia subita dalle lavoratrici stagionali marocchine.
Questa consapevolezza è importante perché è nuova per i lavoratori stagionali. Le denunce e l’organizzazione di questa marcia hanno mostrato solidarietà e convergenza di lotte al sessismo, al razzismo e allo sfruttamento sul lavoro di classe. Lo hanno dimostrato diverse organizzazioni che potrebbero lavorare insieme.
Per questo e per tutto ciò in cui sono finalmente riuscite le lavoratrici stagionali analfabete, povere e rurali, questa marcia è stata storica e la loro lotta si è inserita nella realtà del movimento sociale #Metoo e dei movimenti antirazzisti #BlackLivesMatter, innescati dalla morte di G. Floyd negli Stati Uniti.
Una domanda che è necessario fare: in questa situazione pandemica come è cambiata la situazione delle donne migranti delle campagne? Sono dovute tornare nei loro paesi d’origine? Sono senza lavoro? Hanno avuto problemi di salute?
Vorrei innanzitutto parlare delle dieci donne che hanno osato sporgere denuncia contro il loro datore di lavoro. Sono seguite dagli avvocati del gruppo AUSAJ (Association des utilisateurs de l’Administration de la Justic). Recentemente è stato reso noto che il loro datore di lavoro ha rischiato il carcere a seguito delle accuse delle lavoratrici stagionali marocchine, dando un barlume di speranza a queste donne. Per coloro che rimangono in Spagna, le condizioni sono difficili, senza documenti, senza lavoro e a volte anche senza un alloggio. Queste devono trovare soluzioni per continuare a vivere e continuare a inviare denaro alle loro famiglie che restano in Marocco. Non dobbiamo dimenticare che queste donne hanno tutte dei figli, dai quali sono separate da diversi mesi. In questa migrazione circolare, come suggerisce il nome, ci si aspetta che le donne lavorino per poi tornare a casa. Il loro contratto è chiaramente spiegato prima della loro partenza dal Marocco: il viaggio di andata e di ritorno sono le condizioni necessarie per la sottoscrizione del contratto.
Si tratta di una migrazione di genere, il ritorno è reso sicuro dal fatto che le migranti hanno dei figli. La migrazione circolare soddisfa un triplice obiettivo: la necessità di manodopera agricola nella coltivazione di fragole nella provincia di Huelva, combattere l’immigrazione irregolare e consentire lo sviluppo del paese di origine al ritorno delle donne. Per quelle che sono partite da diversi anni e per le quali la migrazione circolare sta andando abbastanza bene, la migrazione può costituire una possibilità di autonomia. Ne osserviamo, infatti, un certo numero che al ritorno ne ha guadagnato in emancipazione e autonomia economica. Alcune sono riuscite a crearsi piccole attività. È un po’ il paradosso di questa migrazione, che può produrre sia processi di emarginazione che di empowerment.
Oggi, con la pandemia, queste donne affrontano altre sfide. L’anno scorso solo 7.000 donne hanno potuto lasciare il paese su 15.000 previste, a causa della chiusura delle frontiere nel marzo 2020. Quindi queste 7000 donne sono rimaste bloccate in Spagna alla fine del lavoro, ed è stato grazie a una trattativa tra i governi marocchino e spagnolo che sono riusciti a tornare nel loro paese. Quest’anno sono circa 14.000 le donne previste in partenza. Quasi 1.500 di loro sono già partite.
Oggi ci sono condizioni di lavoro aggravate dal contesto covid, di cui dobbiamo anche preoccuparci. Quindi stanno andando a lavorare, ma a quali condizioni? Le serre sono calde, il distanziamento è quasi impossibile durante il lavoro. Presidi sanitari (mascherine, guanti, distanza) saranno rispettati? È stato difficile per noi avere un’idea chiara delle misure e delle precauzioni prese per proteggere queste donne dal coronavirus. Alcuni datori di lavoro hanno distribuito kit di protezione. In Marocco, ad esempio, un cluster di contaminazione di diverse centinaia di lavoratrici nelle aziende agricole di produzione di fragole, gestite dagli spagnoli nella provincia di Kenitra, è stato identificato lo scorso giugno 2020.
In altre parole, aggiungiamo noi, le ragazze (non) stanno (ancora) bene.
INFO:
La Maestà sofferente è visitabile all’esterno del giardino della Fiera di Ferrara.
Il programma del weekend di Internazionale a Ferrara