I luoghi sono il frutto di stratificazioni secolari, di racconti orali, di canti epici cuciti da ignoti rapsodi e di parole che si perdono, nella confusione del tempo, in evi antichi, intangibili, appena percepibili. Il Novecento appena trascorso ci ha consegnato fantasmagoriche storie di italiani che hanno abbandonato lo stivale: tra il 1861 e la prima guerra mondiale, ad esempio, partirono in nove milioni, principalmente verso Brasile, Argentina, Stati Uniti, Europa centrale. Quello è stato uno dei tanti fenomeni migratori, sicuramente tra i più indagati da media e studiosi, anche per la portata, ma gli italiani non si sono mai fermati: quando non han potuto cercare un El Dorado all’estero, l’han fatto percorrendo le vie interne, le arterie che scendono dagli Appennini, solcando in direzione contraria le antiche mulattiere, credendo ai sogni e, talvolta, alla propaganda del Duce.
Così è stato anche negli anni Trenta, quando Benito Mussolini preconizzava una nuova era ed un futuro radioso per i romani della modernità. In quel periodo le vite degli italiani si sono intrecciate in modo diverso: mentre venivano costruiti interi quartieri, case del fascio, questure, edifici pubblici, città, borghi di nuova fondazione e dissidenti ed antifascisti espatriavano, una masnada di contadini poverissimi, di braccianti indebitati e derelitti prendeva strade inesplorate. Anche dal ferrarese, zona tra le più povere d’Italia e in cui vi era un alto tasso di disoccupazione, partirono in molti: verso la Libia, dove l’estense Italo Balbo era governatore, l’Agro Pontino, dove erano iniziate le grandi opere di bonifica, e la Sardegna, terra lontana, misteriosa e malarica. Sarebbe affascinante andare nell’ex Littoria per dialogare con Antonio Pennacchi, autore di Canale Mussolini, o ascoltare i racconti di alcuni degli italo-libici espulsi dalla Libia nel 1970, dopo l’avvento di Gheddafi e l’espropriazione dei propri beni di famiglia, ma qui proviamo a fermarci a Fertilia, un piccolo borgo situato nel nord-ovest della Sardegna, di fronte alla turistica Alghero.
Dimentichiamoci per un attimo la Sardegna della Costa Smeralda e quella dell’entroterra del Supramonte, ma anche quella carbonifera del Sulcis e quella placida del promontorio di Capo Carbonara. La Sardegna è un continente polimorfo e nella regione della Nurra troviamo una delle tante zone umide isolane: lo stagno di Calich, separato dal mare da una pineta che lo costeggia per tutta la lunghezza lungo la riva meridionale. Fertilia si erge a ridosso della zona acquitrinosa e lo sguardo si perde all’orizzonte: una composizione geometrica di grandi strade interpoderali suddividono a reticolo i terreni, fossi da una parte e dall’altra della lunga Strada statale 291 della Nurra, piccoli centri rurali come Maristella, Santa Maria La Palma, rettifili di eucalipti che proteggono dal vento cascine e raccolti. Campagna e zanzare, insegne di negozi con cognomi padani e inflessioni dialettali emiliane e trivenete, piazze con archi metafisici e donne in bicicletta: per un attimo sembra di venir catapultati tra Tresigallo e Jolanda di Savoia, nell’Emilia più profonda, quella intatta e sospesa nel tempo.
Fertilia, in realtà, è una città nuova, ancora giovane, fondata nel marzo del 1936 con la rituale posa della prima pietra della Casa del Fascio, alla presenza del sottosegretario alla bonifica Canelli. L’ultima città del Duce, così come venne descritta e propagandata dal regime, venne edificata a scoppio ritardato: il progetto decollò solo a partire dal 1939, dopo che Mario Ascione, responsabile della bonifica della Nurra, affidò l’incarico, nel 1937, ad uno studio gradito a Mussolini, il gruppo 2PTS (Paolini, Petrucci, Tufaroli, Silenzi).
Ma la storia dei ferraresi di Sardegna inizia prima, il 7 ottobre 1933, quando venne istituito l’Ente Ferrarese di Colonizzazione con il compito di «fissare il maggior numero possibile di famiglie tratte dalla provincia di Ferrara in Sardegna e in altre zone a scarso indice demografico, al fine di costituire la piccola proprietà coltivatrice». I Novelli, gli Scardovelli, i Busi, i Baricordi, i Gavioli, gli Gnani, i Pozzati, i Govoni – famiglie che venivano da Berra, Portomaggiore, Ostellato, Copparo, Codigoro, Jolanda di Savoia – partirono per costruirsi una nuova vita o su consiglio esplicito delle autorità fasciste locali perché colpevoli di intemperanze contro il regime. La partenza fu abbastanza concitata e non riuscirono a portarsi appresso granché: le valigie, una bicicletta e qualche gallina.
Poi un treno li trasportò verso sud, a Civitavecchia, all’interno di vagoni affollati e maleodoranti di un’Italia taciturna e in movimento che smistava i negletti tra Sabaudia, Littoria (oggi Latina), Mussolinia (oggi Arborea), Carbonia. In tanti tra loro non avevano mai visto il mare e dopo la traversata, quando arrivarono nella Nurra deserta, arcaica e impenetrabile, impallidirono: non c’era niente, se non malaria, zanzare e una distesa di terra acquitrinosa da bonificare. Diverse cascine non erano pronte e le prime sei famiglie, arrivate nel 1934, trovarono un alloggio di fortuna in un casermone di Alghero; poi, piano piano, venne inaugurata la prima azienda agricola a Maria Pia di Savoia, e lì si spostarono.
Nel 1938, dopo i primi anni di lavori, il territorio era stato dissodato, in parte rimboschito e messo a coltura con olivi, mandorli, viti e cereali; i coloni, inoltre, potevano contare sulla presenza di un migliaio di capi tra bovini, equini, caprini e suini. Col passare degli anni i ferraresi arrivarono a circa cinquecento, anche se alcune famiglie decisero di tornare a casa per le difficili condizioni di vita. In campagna, tra Gutierrez e Santa Maria La Palma, conservarono riti contadini, tradizioni culinarie e feste ormai scomparse. Fertilia, invece, non fu mai veramente abitata: bisognerà aspettare la fine della guerra quando arrivarono gli esuli istriano-dalmati a rimescolare le carte in quest’angolo di mondo in cui è passata la storia del secolo breve.
Di questo episodio singolare della storia italiana sono rimaste poche tracce: la toponomastica di Fertilia ricorda soprattutto questa seconda migrazione: la colonna in travertino, sul lungomare, col leone di San Marco all’estremità e la scritta «Qui nel 1947 la Sardegna accolse fraterna gli esuli dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia», così come la presenza di vie intitolate a Fiume, Pola, Cherso, Orsera, Rovigno, Trieste, Dignano, Zara, Parenzo. Della numerosa comunità ferrarese sono rimaste le memorie, difficili da raccogliere in quanto i testimoni sono ormai tutti scomparsi.
In mezzo al trambusto di turisti, quando la canicola d’agosto viene mitigata dalla lunga fascia frangivento di eucalipti che costellano la zona, veniamo accolti da alcuni anziani ferraresi che hanno saputo della nostra presenza e della nostra ricerca. Sono tutti molto disponibili ed emozionati quando percepiscono la cadenza della loro terra d’origine e ci accolgono nelle loro case. Riportiamo alcuni stralci di racconti che ci restituiscono ricordi di un tempo che non c’è più.
Ti racconto la mia, la nostra storia. Quando siamo arrivati qui abbiamo legato subito bene. Tutt’ora, con quelli che sono rimasti siamo in ottimi rapporti. Adesso ci sono i figli dei figli, ma abbiamo sempre avuto un buon rapporto con tutte le famiglie ferraresi. Ci vestivamo normali, come in continente. Qua, in Sardegna, ci dicevano che noi donne avevamo la coda, perché andavamo in bicicletta. Da noi, nel ferrarese, era una cosa normale: io già ci sapevo andare in bici. In Sardegna no. Quando le donne dovevano andare ad Alghero in bici, dalla popolazione sarda erano viste malissimo, e pensavano che avessero la coda.
Bianca
Qua era deserto. In più c’erano i carcerati. Alcuni di questi, a volte, venivano nei poderi a prendere le uova. E io li temevo, perché una volta uno di quelli mi ha corso dietro. Erano di quelli che schiacciavano i sassi per fare la ghiaia per le nuove strade, perché le strade ancora non c’erano. Ero rimasta da sola in casa – a me piaceva dormire e spesso mi svegliavo tardi – e sono partita con la cartella per andare a scuola a Fertilia. Nel tragitto vedo questo uomo, che mi guarda. Si alza da dove stava schiacciando i sassi da terra e vedo che in mano ha un coltellaccio. E ha iniziato a seguirmi, ed io a correre. Fortunatamente lì vicino c’era mio zio che lavorava col trattore, e mi è corso incontro. Sono arrivata nelle sue braccia e sono crollata. Sono rimasta cinque giorni senza parlare con nessuno a causa dallo spavento. Da allora ho paura dei coltelli.
Così mio padre andò a parlare coi responsabili, a dire di stare attenti a certi individui, anche perché nei poderi c’erano i bambini. A casa nostra entravano le lepri, le volpi. Le volpi, quante ce n’erano! Qua era natura selvaggia. Al solo pensiero, a raccontarlo non sembra vero. Io e mio fratello avevamo preso pure la malaria. Fino a dodici anni sono andata avanti a punture e febbri alte a quaranta gradi, e prendendo chinino. Poi sono passati a dare medicine contro la malaria e sono guarita. La cucina, ovviamente, ce la siamo portata dietro: era la nostra! Dei bei cappelletti facevamo! I sardi non sapevano nemmeno come erano fatti. Avevamo i maiali, avevamo messo su un bel pollaio, ogni anno uccidevamo almeno due maiali. Avevamo uno zio molto bravo nell’uccisione del maiale, che poi è andato a Iglesias. Ammazzare i maiali, fare i salami: quello non ci mancava. Mia mamma e mia nonna ammazzavano i polli.
Noi per tutta la settimana ci spaccavamo di lavoro, ma la domenica si andava a ballare. Io ho cominciato a dieci anni a rompere le scatole a mio fratello per andare a ballare. Fuori Fertilia, c’era un grande salone e si ballava tutti i sabati con l’orchestrina. C’erano due fratelli gemelli, Giancarlo e Gianfranco Gavioli (da Bondeno) che abitavano qui e un altro amico che suonava la tromba, un certo Siler Rosa (ferrarese), e un altro uomo grande la batteria, e si ballava tutta la notte, oppure si andava nelle case da amici.
La mia famiglia non è tornata nel ferrarese. Mio padre diceva sempre che se avesse saputo di trovare quello che all’inizio abbiamo trovato, non ci sarebbe mai venuto. L’uomo che era incaricato alla selezione delle famiglie era ferrarese. Conosceva le famiglie che sapevano lavorare il terreno, e allora chiedeva in giro. Alcune famiglie se ne sono andate via anche dopo un anno. Ricordo le famiglie Novelli e Scardovelli, erano venuti con noi. Avevano il podere più su di noi. Avevo uno zio sposato con una Novelli. I vecchi dei Novelli sono ritornati nel ferrarese, gli adulti no, sono rimasti qui. Gli Scardovelli stavano nella strada che portava all’aeroporto. Io sono cresciuta qua, e adesso non mi piacerebbe stare là, a Ferrara.
Neanche Ferrara mi piace, mi sembra una città vecchia. Ho amato Gradizza, il paese di mio marito, la campagna ferrarese, ma adesso non ci tornerei. Anche se a volte ho nostalgia del ferrarese. A volte ho il desiderio di andare a vedere la campagna ferrarese. Erano da ammirare, con tutti quei frutti. Poi la canapa, come la pestavano, la lavoravano. Sono campagnola e ho sempre amato la campagna. Io parlo sempre ferrarese, la mia famiglia lo ha sempre parlato. Già mia figlia parla il sardo ma il ferrarese lo capisce. Mio nipote è sardo del tutto. Mio figlio, invece, parla dialetto, perché glielo ho sempre voluto insegnare. Questa terra l’abbiamo bonificata noi, i ferraresi. Sì, c’era qualche veneto, qualche toscano, ma sono stati i ferraresi a bonificare la terra. Oggi non c’è nessun monumento, o ricorrenza, che ricordi questo lavoro. Non l’hanno mai fatto. Non toccava a noi farlo, ma ai dirigenti.
Quando siamo arrivati qua noi, dove adesso c’è l’aeroporto, c’erano alberi, foreste, boschi fittissimi. Questo l’ho visto coi miei occhi e poi me lo ha raccontato sempre mio padre, che andava a caccia. Qua era tutto bosco. Per i miei genitori non fu un trauma venire qua. Gli han dato la terra e loro sono partiti. Quando siamo arrivati c’ero io, mio padre e mia madre, un mio nonno, la zia e mia sorella. Due sorelle sono nate qui. Mio nonno era nato a Ferrara. Quelli dell’Ente erano algheresi, sardi. Avevamo il bestiame in scuderia e venivano a controllare anche le mucche che si mungevano per vedere se mio padre lasciava del latte dentro le tette delle mucche per poi darlo a noi figli. A noi – a tutta la famiglia – spettava un litro di latte al giorno. Basta. Per l’acqua c’era una condotta che gettava l’acqua in una specie di “tambulana”, e lì prendevamo l’acqua. Ma c’erano comunque delle fontanelle per la campagna.
ferdinando
Noi ci spostavamo in bici. Quando le ferraresi, le venete, andavano in bici a far spesa ad Alghero, come si entrava in città, gli algheresi dicevano: “Guarda quelle bagasce delle ferraresi”. Le ferraresi erano tutte bagasce. Perché andavano in bici. Noi alla sera andavamo a volte ad Alghero. Si passava per Fertilia, allo stagno, c’erano i pescatori. Noi passavamo in bici veloci e loro urlavano: “La bagascia di tua madre ferrarese”.
Maria Pia sta tra Alghero Lido e Fertilia. I ferraresi furono mandati a Maria Pia. C’erano tre, quattro case coloniche. Ancora oggi è rimasta una casa colonica lunga. Dove oggi c’è la stazione delle antenne, quella era la centrale, la sede dell’Ente, e lì abitavano i fattori, i padroni. Tutti i coloni erano nella casa lunga. Poi stalle coi cavalli e mucche da latte. E le famiglie. C’erano i Finetti, i Busi, i Pigò. I cavalli erano gestiti dai fattori. Le mucche dai coloni. Quando siamo arrivati, c’erano ancora le vacche allo stato brado, e noi coloni andavamo a prendere le vacche al laccio, e poi le portavamo nelle stalle. Poi c’erano i pastori ad Alghero. C’erano, come fattori, i Turrini, i Barioni (ferraresi e bolognesi), i Farinelli erano impiegati d’ufficio.
Molte famiglie erano fasciste. A quei tempi erano tutti fascisti. O comunque si vestivano da fascisti. Ma mio padre si vestiva fascista, ma poi cantava bandiera rossa coi comunisti. Mio padre mi raccontava che a Ferrara le aveva buscate, prima di venire qua a Fertilia. A Ferrara fino a una certa ora stava coi fascisti, e la sera andava a cantare bandiera rossa. E fino a quando è morto, non era mica fascista, lui. Sicuro.
I miei genitori mi raccontavano che c’era una richiesta al tempo di Mussolini. Cercavano manodopera per l’Agro Pontino, per costruire Littoria e poi per la Sardegna, e i miei genitori fecero domanda per Littoria. Quando, però, si sono presentati gli han detto che per Littoria era già tutto occupato, ma c’era ancora posto per la Sardegna. Mia nonna è rimasta un po’ così, mentre mia mamma, che aveva ventidue anni e si era appena sposata, ha detto: “Sì sì, andiamo in Sardegna”.
mirella
I miei nonni han sempre detto che la Sardegna era troppo lontana, al tempo poi sembrava lontanissima. Vedendola da qui, il continente sembra più vicino, ma da là la Sardegna è lontana. E sono venuti qui, alla deriva. C’era solo questa casa e cespugli tutti intorno. Una casa e basta. Prima però abitavano a Berra. Mia mamma è di Copparo ma ha vissuto per anni a San Giorgio, poi ha conosciuto mio padre e sono andati ad abitare a Berra. Erano sotto padrone. Se fossimo venuti in Sardegna – così ci promisero – avremmo lavorato come contadini ma dopo dieci anni il terreno sarebbe diventato nostro.
Così sono partiti da Ferrara e sono arrivati a Civitavecchia e poi a Olbia. Da Olbia, col treno, sono arrivati ad Olmedo, e da lì, col carro buoi, a Fertilia. Tra il ’34 e il ’36 sono venute qui circa sessanta famiglie ferraresi. Poi hanno visto l’ambiente e si sono trovati a disagio, non c’era niente. Per andare a fare la spesa andavano ad Alghero in bici, ma erano maltrattati dai sardi perché le biciclette non le conoscevano. Quando sono arrivati qui, una volta che sono riusciti a disboscare, hanno iniziato a seminare un po’, perché era mezzadria, c’era l’Ente, e gli dava la metà del raccolto. Ma prendevano via tutto. Quando trebbiavano, l’Ente prendeva tanto, e a noi rimaneva il minimo per vivere.
La casa in cui fummo messi era vuota, aveva solo la paglia a terra, e i pochi mobili che si erano portati dal ferrarese erano arrivati dopo dei giorni, quindi i primi tempi hanno dormito sulla paglia; s’erano portati le valigie con qualche indumento dentro, nient’altro. La prima volta che sono andata io nel ferrarese è stato nel ’55. Andai a salutare mia nonna che abitava a Berra, si chiamava Finessi Ines, e mio nonno, Secondo Piva. La sorella di mia mamma abitava a Denore. Allora un giorno passa un venditore di sardine e fa: “Venera, guarda qui che sardine!”, allora mia zia dice: “Ho io una bella sardina, altro che le sue”. Allora mia zia mi prende e mi dice “Mirella, vieni”. “Vedi che bella sardina che ho?”. Ma da dove viene? chiede l’uomo. Allora io inizio a parlare in ferrarese, e quello non capisce. “Ma è ferrarese, parla come noi”. “No no, è una sardina, viene dalla Sardegna!” gli fa mia zia, ma lui non ci credeva. In effetti io ero nata e vivevo in Sardegna, ma parlavo in ferrarese e avevo tutta la mia famiglia ferrarese. Noi abbiamo sempre continuato a parlare ferrarese, ancora adesso con mia madre parlo ferrarese. Nessuno sapeva, nel ferrarese, anche negli anni ’60 e ’70, di questa storia dei ferraresi in Sardegna.
2 commenti
Grazie per questi ricordi, io sono la terza generazione nata a ALGHERO, mi va di ricirdare anche altre famiglie ferraresi come i Bolognesi, Peretto, Gobbato, Bagato, e tanti altri che adesso non ricordo, ma quando vado in vacanza in quelle zone mi sembra di tornare a casa, anche se effettivamente io sono nata e cresciuta in Sardegna, ma sento un forte legame con quelle terre e dopo due giorni di soggiorno non so picome parlo perchè mi viene da parlare il dialetto, come facevano i miei zii con mia mamma.
Nel suo articolo ha dimenticato di citare un altra bonifica fatta negli anni 30, O. N. C. Opera Nazionale per i Combatenti, situata nel Medio Campidano, nel agro di Sanluri, era uno stagno bonificato e i terreni assegnati a famiglie venete con alle spalle le stesse storie di quelle ferraresi. Io sono la più piccola della terza generazione, mio nonno paterno (Schiavo) è venuto in Sardegna nel 32 con tutta la famiglia (11 figli) di cui i più grandi già sposati e con prole. La storia è quella di tutte le famiglie che all’epoca hanno lasciato le loro terre e sono venute qui in Sardegna. Anche mio nonno materno (Bassetto) è arrivao qui dal veneto con il fratello ed entrambi avevano numerosi figli maschi. Quando leggo di queste storie e testimonianze mi sembra di sentire i racconti dei miei genitori.