Questa intervista è molto lunga, mi autodenuncio e, da subito, invito il lettore a prendersi il giusto tempo per poter leggere questo pezzo dedicato a Moira dal Sito e al loro primo libro, Quando qui sarà tornato il mare. “Un nome collettivo (Moira Dal Sito) di un gruppo di scrittura che si è formato partecipando a un laboratorio, organizzato dalla biblioteca ‘Mario Soldati’ di Ostellato e condotto da Wu Ming1”. Un gruppo eterogeneo incontratosi per la prima volta nel 2018. “Ciascuno di noi – spiegano – aveva già partecipato, in passato, ad esperienze di laboratori e corsi di scrittura, ma mai, come questa volta, temi, obiettivi e percorso erano stati delineati così chiaramente fin dall’inizio”.
Si parte da un assunto, “il territorio del Delta ferrarese è destinato, in un futuro neanche troppo lontano, a ritornare quello che era in passato, a essere dunque, di nuovo, invaso dal mare, così come è sempre stato, prima delle grandi bonifiche con le quali si è creduto di poter trasformare e asservire ai propri interessi un territorio, semplicemente forzandone la natura”.
Le venti persone che compongono il collettivo, con il supporto di Wu Ming 1 hanno iniziato a mettere insieme idee e confrontarsi tracciando “i confini della propria storia”. Storia che diventa un libro, Quando qui sarà tornato il mare, che parla di noi, della bassa ferrarese. Un libro ambientato in un futuro non molto lontano, un futuro distopico, che gli autori raccontano per proporre una riflessione sul presente.
Ma, prima di parlare del libro, sorge spontaneo chiedersi, come nasce il nome Moira dal Sito?
Il lavoro procedeva, l’obiettivo si avvicinava, ma non avevamo ancora un nome e continuare a definirci, semplicemente, “collettivo scrittori Ostellato” non era più né funzionale né particolarmente significativo. Moira Dal Sito nasce da una lunga e intensa riflessione collettiva: bisognava trovare un unico nome che rappresentasse tutti e che, contemporaneamente, avesse una valenza fortemente evocativa dei luoghi e del territorio a cui si voleva dare voce.
L’idea di anagrammare il nome “Mario Soldati” in “Moira Dal Sito”, ha messo d’accordo tutti. Potevamo così coniugare l’ omaggio alla biblioteca che aveva tenuto a battesimo il nostro gruppo, con gli innumerevoli significati nascosti in questo nome, che rimandano tutti ai contenuti del libro.
Moira, in greco, significa destino e la parola “sito” definisce un luogo, un territorio, un’identità.
Quando qui sarà tornato il mare, titolo profetico e inquietante se penso alla vecchia casa dei miei nonni tra Tresigallo e Massafiscaglia, in cui una tacca a lato della porta, molto sopra la mia testa, indica il livello del mare. Un cimelio del passato funge da monito per presente e futuro. Un po’ come il vostro libro?
Sono storie che partono da lontano e affondano le radici in una civiltà contadina semplice, arcaica e costantemente impegnata, per sopravvivere a mantenersi in equilibrio tra il rispetto delle leggi della natura e lo sfruttamento della terra da coltivare. Ogni pagina di questo libro racconta un pezzo di questa storia collettiva, di questa umanità sempre in bilico tra abbondanza e carestia, tra trionfo e catastrofe, tra cura e oltraggio.
Ciascuno di noi, scrivendo, sapeva che non si sarebbe trattato, semplicemente, di lasciare spazio all’immaginazione e lavorare di fantasia. Bisognava, al contrario, rimanere ancorati alla realtà dei fatti e costruire una narrazione nella quale gli elementi fantastici e visionari rappresentassero solo strumenti al servizio del racconto. Il vero e, in fondo, unico protagonista di questo libro è il territorio stesso che mostra, evidenti, come le rughe sul volto dei vecchi, i segni della propria storia.
Una storia antica di terra strappata all’acqua e difesa accanitamente per anni, della volontà ostinata di rendere agricolo un terreno nel quale il sale stagnava ancora appena sotto la crosta, dell’abbandono progressivo di quel sogno di abbondanza.
Basta percorrere, in macchina, il lungo rettilineo che va da Ostellato a Comacchio, attraversando i terreni del Mezzano, ormai ridotti a una lunga teoria di campi trascurati, per rendersi conto che tanta desolazione è già l’anticamera di un futuro peggiore.
Ed è senz’altro questo a produrre l’impatto emotivo più forte: il pensiero che le terre che descriviamo, sommerse, paludose e ormai abbandonate a un inesorabile degrado, siano proprio le stesse sulle quali oggi camminiamo, continuando la nostra vita di sempre, dimentichi, troppo spesso, di ciò che è stato e forse, ancora, non abbastanza preoccupati di ciò che sarà.
Subito sotto al titolo si legge: “storie dal clima che ci attende”. Un’attesa che è dietro l’angolo, in un futuro prossimo. Tutti i racconti del libro, posti in ordine cronologico, hanno continui riferimenti temporali a quello che ora è il presente ma anche al nostro passato. Una scelta stilistica per ricordare l’impatto che stiamo avendo sul futuro del pianeta ma forse anche ciò che possiamo fare per tentare di recuperare?
È indiscutibile che oggi stiamo già, dolorosamente, scontando gli effetti di scelte, comportamenti e politiche del passato, così come è altrettanto evidente che non si stiano adottando misure adeguate né per rimediare al danno, né per evitare di produrne altri. Veniamo da anni che hanno visto la celebrazione e il trionfo della tecnologia, e che hanno privilegiato un modello di sviluppo che tenesse conto solo dell’aspetto industriale ed economico, al quale è stato affidato, in esclusiva, il progresso e il benessere delle generazioni future. È evidente che così non è stato eppure, aldilà dei discorsi, delle ipotesi e delle occasionali prese di posizione, ancora non si assiste a un reale cambio di impostazione. Con il nostro libro vogliamo parlare di tutto questo e lo facciamo nel modo che ci è più congeniale: raccontando storie.
Storie che tracciano un sentiero tra passato e futuro, passando per un oggi che, paradossalmente, conosciamo meglio, ma fatichiamo a comprendere. Parlare di passato e di futuro consente uno sguardo più ampio e distaccato funzionale, ci sembra, alla completezza della narrazione.
Fin da subito leggendo il libro pervade una grande sensazione di angoscia verso un futuro che in fondo conosciamo, ma non accettiamo. Più nascosta invece pare esserci la speranza, quasi a dire che la catastrofe può risvegliarci dal torpore?
Dalle grida di allarme degli scienziati, dalle catastrofi dovute agli eventi meteorologici sempre più estremi, stiamo cominciando a toccare con mano quello che nel libro è riportato in certi passaggi: “nessuno aveva mai visto tanta insistenza dei marosi: spazzarono via i Lidi, le case e quei pochi alberi rimasti. Tante Cassandre avevano predetto che tutto ciò sarebbe accaduto, ma nessuno le aveva ascoltate”. “Imponenti, quasi a nascondere la bellezza del mare a occhi indiscreti. Costruiti per ingordigia edilizia, senza rispetto per la semplicità, la linearità e la bellezza di questo territorio…”.
Questo libro vuole risvegliare dal torpore sia le classi dirigenti sorde che la gente comune verso l’importanza del rispetto della natura, ma desidera anche raccontare situazioni di normalità, che aprono a un futuro di speranza. E’ quanto accade in “Chloè”, nel quale il racconto di una nascita, anche se accompagnata da segni premonitori infausti, ci lascia un segno di resilienza.
Stiamo vivendo anni che agli occhi di uno storico, in particolare se messi in relazione con i vostri racconti ambientati in un futuro distopico, ricordano quei periodi che vengono indicati come passaggio di un’epoca. A scuola spesso li insegnano con una data, la scoperta dell’America è forse la più famosa, anche se in realtà sono cambiamenti che durano anni. I cambiamenti climatici segneranno sicuramente un passaggio di epoca, nel bene o nel male. Forse, nei libri di storia, verrà indicata una data, magari quella di un’inondazione che sommergerà Venezia, ma è il qui ed ora che voi volete sottolineare anche attraverso continui richiami al presente? Lo spiega molto bene Wu Ming 1 nella prefazione “non accadrà tra ottant’anni: accadrà in ottant’anni”.
Esatto, è proprio così. Quasi tutti i nostri racconti si svolgono in un futuro non troppo lontano (70 o 80 anni sono un’inezia se paragonati alle trasformazioni che ci presenta la natura, quando non è sconvolta dall’intervento umano) e presentano spesso richiami ad un passato, quasi mai visto con gli occhi della nostalgia o del rimpianto, frequentemente descritto – invece – come un presagio o un’anticipazione di ciò che, fatalmente, si verificherà, o si sta verificando.
Nessuna data simbolica, dunque, ma cambiamenti progressivi e inarrestabili, che conducono al “futuro distopico” da noi narrato. Giusto per fare qualche esempio, la ragazzina de “La fiaba di Miriam”, nell’ultimo scorcio del 21^ secolo, decide di lasciare la Valle Aurina e di raggiungere i luoghi delle origini della sua famiglia proprio perché colpita dai ricordi dell’anziana nonna, che nel Delta ferrarese aveva vissuto gli anni dell’infanzia, percependo già allora i disastri che avrebbero poi condotto agli allagamenti e inabissamenti delle terre nei decenni successivi. Oppure il fantasma dell’anziano docente di liceo che, in “Finalis rerum”, scorge le nuove forme di vita ricreatesi una trentina d’anni dopo la sua morte, avvenuta ai margini di un Mezzano già pesantemente inquinato.
Nei racconti oltre al preponderante richiamo ai cambiamenti climatici c’è, molto forte, l’esigenza di legarli alle mutazioni della società. Migrazione, ma anche nuove società, nuove forme di collaborazione. Non descrivete in nessun punto un mondo ideale ma si notano molti spunti al presente per un cambio paradigmatico del modo di vivere la società. Una visione che non può e non deve essere slegata rispetto a quella climatica? Dopotutto è da poco uscito un rapporto scritto da Caritas e Legambiente che unisce economia, ambiente e società.
Non c’è dubbio sul fatto che insieme al cambiamento climatico questi anni ci stanno proponendo fenomeni, evoluzioni, contraddizioni sociali che, giustamente, Caritas e Legambiente intrecciano nella loro analisi “Territori civili: indicatori, mappe e buone pratiche verso l’ecologia integrale”; anche a noi è parso quasi naturale inserire, in alcuni racconti, squarci di utopia, visioni di un possibile futuro in cui un’umanità derelitta riscopre antichi saperi, modi di stare insieme ispirati a solidarietà e cooperazione, prefigurando comunità libere, costruite su modelli egualitari. E’ il caso di Nena (una dei protagonisti de “Il futuro del passato”), ostinatamente dedita a costruire una nuova vita, una “società perfetta” per sé e per il figlio Chanu, pur in condizioni ambientali disastrose.
“Il futuro – si legge in un passaggio del libro – era una promessa, ora è diventato una minaccia”. Una frase che mi sembra ben descrivere lo stato d’animo di chi oggi ha venti\trent’anni. Vale anche oggi?
Si, ma non lasciamoci attrarre dal torbido fascino del nichilismo. Quella frase è pronunciata da Celso, un uomo malato, che ritorna ai luoghi della sua giovinezza dopo aver visto infrangersi nella realtà le illusioni che avevano caratterizzato i suoi anni passati. Un senso di fallimento molto umano, per certi aspetti legato alla sua realtà del momento, e che ora sembra essere tutto quello che ha da offrire a suo figlio. Un senso di fallimento al giorno d’oggi molto presente, è vero, fomentato dalla sindrome TINA (There is No Alternative), ma che abbiamo il diritto ed il dovere di guardare con sospetto, e di allontanare dalle nostre prospettive. O forse nella ricerca di alternative al presente il fallimento deve diventare uno strumento, lasciandoci guidare da ciò che diceva Becket “Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci sempre meglio”.
Sempre nella prefazione Wu Ming 1 sottolinea il problema di una letteratura afasica rispetto al problema del cambiamento climatico. “Molto spesso – scrive -, di fronte a un fatto bizzarro realmente accaduto, uno scrittore si ritrova a dire o pensare: ‘se l’avessi scritta in un romanzo mi avrebbero mandato a quel paese’”. Come siete riusciti a mantenere “nell’alveo del plausibile” il vostro romanzo distopico? Una delle spiegazioni che mi sono dato è il ricercato e continuo tentativo di collegare i racconti con il presente e con il nostro passato.
É stato un esercizio di immaginazione, una occupazione sempre più lasciata ai margini della nostra vita e delegata ad esperti, ma che riteniamo debba essere esercitata quotidianamente da tutti. Michel Tournier diceva che l’immaginazione è un grado di iper-realismo e in effetti quello che abbiamo fatto è stato portare alle estreme conseguenze eventi, vicende, dinamiche sociali di cui abbiamo quotidianamente esperienza: il degrado ambientale causato dalla cupidigia capitalista, sempre assolta sul totem della crescita, a cui a volte è asservita anche la ricerca scientifica, generando una erronea sfiducia nei confronti della scienza, l’atomizzazione sociale, con la disgregazione delle comunità e il conseguente desiderio di sicurezza anche a scapito della libertà, la chiusura identitaria che produce diffidenza allo scambio con i nuovi soggetti che appaiono nel tessuto sociale, la disuguaglianza sempre più ampia. Sono questi i temi su cui abbiamo appoggiato la nostra lente di ingrandimento, inserendoli nel contesto dei cambiamenti climatici che come dice Wu Ming 1 non avverranno tra alcuni decenni, ma stanno già avvenendo oggi, ogni giorno di più.
Certo non è solo tramite l’utilizzo di mezzi narrativi che si può inserire nell’alveo del plausibile un racconto. E allora quale ruolo può e deve avere la letteratura nel racconto dei cambiamente climatici?
L’immaginazione va stimolata, pungolata, forzata….Questo afferma tra l’altro Wu Ming 1 nell’introduzione al testo. Perché coinvolgere l’immaginario?
In questi ultimi giorni che parecchie mareggiate hanno travolto le difese innalzate sui nostri litorali, i giornali locali hanno trattato il fenomeno con interventi efficaci e allarmanti. Ma la cronaca si ferma al qui e ora, al massimo cita eventi simili, accaduti nel passato e lancia vaghe ipotesi del perché. I cambiamenti climatici però si sviluppano in tempi lunghi e l’origine del fenomeno non si coglie in tutta la sua ampiezza con sufficiente tempismo. Un’autentica consapevolezza del problema contrasta con mille particolarismi. Alla realtà ci si abitua, la verità si rimuove. Tanto che, pur di evitare il confronto diretto con quello che sta accadendo progressivamente sotto i nostri occhi, é difficile anche sottrarsi a visioni postcatastrofiche, che hanno la caratteristica di delineare un altro mondo. L’attenzione cambia direzione, non interessa più elaborare una soluzione del problema, ma si mettono in gioco elementi insoliti che tuttavia hanno il potere di ampliare il campo della visione e spingono ad immaginare il territorio in modo diverso.
L’immaginario infatti non é solo creazione fantastica, se stimolato adeguatamente mette in moto quei meccanismi simbolici che aiutano il rimosso ad affiorare, ad esempio immagini del passato, suggestioni o emozioni suscitate dalla storia, miti, racconti dei nonni che diventano poi oggetto di elaborazione letteraria. A partire da questa può delinearsi una diversa visione della realtà e la possibilità di reinventare il futuro dei nostri territori. Come ci ricorda Wu Ming1: …”La storia e la geografia di un territorio dove acqua e terra lottano da millenni possono diventare saperi utili a vivere e lottare dentro la crisi climatica. Il nuovo attivismo sul clima può farne tesoro…”
La letteratura radicata a questi elementi sottili, che pure hanno una concreta consistenza, può dare vita, col supporto della creatività e di una tecnica adeguate, a una narrazione che superi le attuali strettoie culturali e ci avvicini di più alla verità dei fatti, favorendo il formarsi di una più ampia coscienza ambientale. Può diventare strumento di sensibilizzazione, riflessione e immaginazione per vedere oltre l’attuale orizzonte, in armonia con la natura e danzando al ritmo delle nuove sensibilità consolidate. In questo senso Wu Ming suggerisce di cantare la mappa e noi abbiamo tentato di farlo.
Questo libro è l’esito di un laboratorio alla biblioteca di Ostellato con Wu MIng 1, che nella prefazione lo definisce più che altro un incontro, uno scambio. Un punto di partenza di un percorso che, al pari di altri, vuole mettere al centro dell’attenzione i cambiamenti climatici ma anche le storture della società in cui viviamo?
Come racconta Wu Ming 1 nella Prefazione, il laboratorio presso la Biblioteca di Ostellato si è configurato sin dall’inizio come un’esperienza diversa dal tradizionale corso di scrittura, e per varie ragioni. Da alcuni anni Wu Ming 1 stava approfondendo attraverso una serie di performance, racconti e reportage il tema del cambiamento climatico, quindi non si partiva da zero, ma da una base di ricerca già piuttosto solida.
Una seconda ragione sta nel fatto che il gruppo dei partecipanti aveva, chi più chi meno, già esperienza di scrittura e passioni per generi – anche assai diversi tra loro – già piuttosto definite e in alcuni casi stilisticamente mature. E ultima ragione, forse, il fatto che nel basso ferrarese gli scenari di catastrofe climatica e di estrema fragilità degli ecosistemi a fronte della presenza dell’uomo sono da sempre cifra di un ambiente e persino di un orizzonte mentale. In questa terra da sempre, anche mentre scrivevamo, anche mentre scriviamo ora, è in atto il conflitto tra terra e acqua, tra l’ambiente e il tentativo delle comunità umane di vivere in questi luoghi. E quindi la nostra esperienza, a guardarla a ritroso, è stato come un cercare di dare forma a tutto questo, che è il nostro passato ma anche il nostro presente e il nostro futuro, in un rapporto di scambio, di confronto, di cooperazione.
E veniamo alla seconda questione, perché forse proprio nella condivisione, nella “scrittura collettiva” del mondo in cui si abita o si abiterà sta un possibile modo per affrontare anche il cambiamento climatico e tutto ciò che ad esso è legato. È oramai evidente che l’approccio predatorio dei paesi più industrializzati nei confronti delle risorse ambientali (e di conseguenza degli ecosistemi e delle comunità locali) è il problema oggi come nel futuro prossimo. Pensiamo soltanto, ad esempio, a quanto la desertificazione di intere aree del pianeta influenzi i movimenti migratori e la scomparsa di intere culture; o ancora, come i processi di zoonosi (o salto di specie di malattie dall’animale all’uomo) come vediamo nella pandemia in corso, siano dovuti a questo tipo di approccio. E le catastrofi sono come lenti di ingrandimento, mostrano le disuguaglianze, mostrano come nelle emergenze non siamo tutti uguali nella possibilità di affrontarle.
2 commenti
Molto interessante e ottima presentazione.