Mi aggiro per quest’ospedale dominato dal caos. Qui tutti hanno bisogno di me. Corpi inermi in balia di un destino che non possono controllare. Il personale medico gira e rigira esseri umani il cui legame con la vita sembra delicato come il filo argenteo di una ragnatela. Uniti gli uni agli altri dagli stessi sintomi, sintomi davanti ai quali ogni terapia risulta vana. Tamponi che non vengono fatti, autopsie che vengono negate, morti che non possono essere pianti come meritano.
I turni di giorno sono estenuanti, la vestizione per entrare in terapia intensiva richiede una cura talmente meticolosa che la maggior parte del personale addetto preferisce prolungare i propri turni per non doversi sottoporre troppo volte alla tanto odiata vestizione. Se hai fame, te la tieni. Se devi andare in bagno, resisti finché non ne puoi più. Quando esci dal reparto il viso è solcato, il naso dolente, l’umore a terra, l’anima a pezzi. “Impotente”. È questa la sensazione che percepisco nei Camici Bianchi quando parlano tra loro o quando da soli si interrogano con lo sguardo nel vuoto: “Dove abbiamo sbagliato?” “Cosa non abbiamo capito?” “Perché non siamo riusciti a salvarlo? “Come avremmo potuto salvarla?”
C’è così tanta paura concentrata in un solo luogo che non so se riuscirò ad aiutare tutti.
Come temevo, Alfredo non ce l’ha fatta: “Ora del decesso: 23:45”. Devo correre dalla sua famiglia per evitare che crolli nel momento in cui riceverà la notizia per telefono.
Lo conosco bene il dolore della gente, mi precipito all’istante nello spirito di chi dice addio a un proprio caro, ma c’è una bella differenza nell’essere costretti a non poter dire “Addio”, nel non poter stringere una mano, nel non poter assistere a un ultimo respiro. Sono arrivata a un punto che non so se abbia più bisogno di me chi se ne va o chi resta.
Sono stremata, nemmeno di notte posso riprendere fiato. Dove dovrebbero esserci sogni, ci sono tenebre. Tute bianche, che sembrano provenire da un futuro che l’uomo ha visto solo nei film, si aggirano nel reparto covid. Si muovono rapidamente, mettono in posizione prona alcuni pazienti, supina altri, facendo attenzione a non confondere le cartelle cliniche, alcune talmente simili da sembrare uguali. Tra loro spesso comunicano con Whatsapp, separati da una parete che divide chi è bardato dalla testa ai piedi e chi si è appena liberato di quella pesante e asfissiante capsula protettiva. Sulle tute bianche hanno scritto il proprio nome, senza quel segno a pennarello non saprebbero come riconoscersi.
Chi lavora in ospedale è abituato alla morte… o forse a certe emozioni non si può fare l’abitudine. Anche chi negli anni ha mantenuto il distacco emotivo, la razionalità, senza farsi coinvolgere dal dolore altrui, ora sembra aver bisogno di me. Si vive alla giornata, con poche direttive e informazioni che cambiano rapide come la marea impazzita, e diventa sempre più difficile distinguere verità e fake news:
“Il covid19 sopravvive sulle superfici: lasciate le scarpe fuori dalla porta di casa e stendete i vestiti al sole”.
“Bere latte e mangiare peperoncino protegge dal nuovo coronavirus”.
“È in arrivo il primo farmaco anticovid: si tratta di un inibitore virale dell’RNA polimerasi che interferisce con la produzione di materiale genetico virale, impedendo al virus di moltiplicarsi”.
“Le zecche possono trasmettere il covid19”.
Regna il caos, si procede a tentoni sperando di fare la mossa giusta. Ormai i tuttologi abbondano e siamo alla mercé di mani insicure che ci spostano come pedine su una scacchiera diventata all’improvviso troppo stretta. È vietato uscire di casa se non per motivi strettamente necessari che vanno esplicitati nero su bianco sulla certificazione da portare sempre con sé. Sono vietati assembramenti. Gran parte dei divertimenti sono chiusi o aperti con molte restrizioni. Divieti. Divieti. Divieti e la libertà è andata a puttane. Quando un politico, davanti a una pandemia globale, ha più peso di un esperto virologo, capisci che il pianeta ha smarrito la retta via.
Privati della possibilità di dire addio ai nostri cari: che fine ha fatto l’umanità? Chi non ha avuto la “fortuna” di vedere neanche attraverso un vetro quel parente o quell’amico che ha lasciato la Terra, per tutta la vita si chiederà cosa deve aver provato quella persona tanto amata a incontrare la morte senza parole o gesti di conforto. Io osservo, corro, intervengo, ma non sono stata investita della capacità di fare miracoli. Così mi insinuo tra i pensieri disperati della gente, e davanti a un dolore che ogni volta mi debilita ulteriormente, cerco di sussurrare con tutta la grinta che mi contraddistingue, l’unica emozione più forte della paura: “Non se n’è andato da solo, le tue preghiere lo hanno raggiunto”.
Saltello da una persona all’altra, aggrappandomi con le unghie a ogni singola anima per avere la meglio sullo sconforto.
Il mio nome è Speranza.
Sono quel bambino con il trenino rosso che ha visto per l’ultima volta suo nonno il giorno in cui l’ambulanza l’ha portato via di corsa: sono troppo piccolo per sapere cosa gli sta succedendo e l’unica cosa a cui penso è quando potrò giocare nuovamente con lui.
Sono quella madre che piange in silenzio stringendo disperatamente al petto la felpa della figlia e si domanda perché la sua bambina di 20 anni è intubata, quando i telegiornali non fanno altro che ripetere che questo maledetto virus uccide solo gli anziani.
Sono l’anestesista che ogni giorno impiega 40 minuti a svestirsi di tutti i dispositivi di sicurezza, che quando arriva a casa crolla sotto la doccia e piange sommessamente finché la paura e il dolore accumulati durante il turno di troppe ore non abbandonano la sua anima.
Sono quel marito che presto avrebbe festeggiato le nozze d’oro con la donna che ama da quando aveva quindici anni. Non mi hanno permesso di vederla, di salutarla, di tenerle la mano mentre lasciava questo mondo. Sola.
Sono il superiore di Amanda, il medico che senza fare l’esame di stato è stato catapultato in una realtà inimmaginabile. Ha una crisi di panico. Gli occhiali, troppo grandi per il suo viso, si appannano mentre lei inizia a iperventilare dopo aver assistito al suo primo decesso. La prendo per le spalle, le indico il nome sulla mia tuta di sicurezza in modo che possa identificarmi e associare un volto al fagotto bianco di tessuto e plastica in cui sono imprigionata da troppe ore. Le prendo la mano, guanti che si intrecciano, e respirando lentamente cerco di infonderle la fiducia che mi resta.
Il mio nome è Speranza.
Sono inafferrabile, labile, irrazionale, ma sono anche il paziente del letto 52 che ha visto morire accanto a sé già 7 persone. Ho 73 anni e sono settimane che mi aggrappo alla vita. Quando esalerò il mio ultimo respiro benedirò questi angeli senza ali che, giorno dopo giorno, si sono presi cura di me e maledirò chi ha impedito al mio bambino, quello con il trenino rosso, di dire addio a suo nonno.
4 commenti
Emozioni a non finire!!!! Realtà toccabile che lacera il
Mio cuore e la mia vita giornaliera !!! Congratulazioni vivissime
Grazie di cuore Dianella!
Grazie per queste pillole di semplice felicità … ricordi indelebili e cari al cuore e realtà difficili che tentiamo giornalmente di affrontare con rassegnato coraggio ..e’ piacevole pensare che in qualche luogo – in senso lato – qualcuno le annoti …. grazie
Cara Paola, grazie a lei per essersi soffermata su questo mio racconto. L’ispirazione l’ho avuta dalla mia insegnante di danza, anestesista che ha vissuto in prima persona tutto questo.