Nel 2012 Alessio Romenzi è un fotografo ancora poco conosciuto. È in Siria, durante l’esplosione di una guerra civile ancora non conclusa che inizia a diffondere immagini dall’interno di un paese lacerato. Contribuendo a raccontarlo, arrivando ad un rapporto diretto con il prestigioso Time, otto anni solo una delle tantissime realtà internazionali con cui collabora per una serie di reportage che raccontano un fotogiornalismo fatto di esperienza sul campo, a diretto contatto con le situazioni complesse del mondo, in particolare (ma non solo) nella zona del Medio Oriente.
In questi mesi, grazie ad un progetto con Medici Senza Frontiere, ha avuto accesso all’emergenza italiana, all’interno di un ospedale, un carcere, una Rsa e una serie di strutture occupate dove l’organizzazione umanitaria ha dato supporto nella gestione sanitaria.
Un progetto di 48 scatti, caratterizzati dal bianco e nero, che saranno esposti al Padiglione di arte contemporanea di Ferrara fino al 18 ottobre, inaugurati durante il primo weekend del Festival di Internazionale.
E c’è stato un momento, mentre ci salutavamo, in cui abbiamo capito il perché sia stata la persona giusta per raccontare questo evento: gli abbiamo scattato una foto e gli abbiamo descritto quella sensazione di frattura, di violare qualcosa nel chiedere un momento per uno scatto ad una persona conosciuta da poco e lui, che ha guardato negli occhi sofferenze e angoli di mondo ci ha detto: “è normale, succede sempre ancora anche a me.” Se la sensibilità non viene anestetizzata dal lavoro, allora nel lavoro esce il cuore, unito alla tecnica e all’esperienza.
Guardando al tuo percorso lavorativo, com’è stato passare da una serie di esperienze all’estero, in zone complesse e inizialmente senza supporto di nessun tipo per arrivare a questo lavoro in un momento storico in cui l’Italia si è trovata ad essere la zona di emergenza nel mondo?
Una cosa che è mancata in questo progetto è stata la la rete di protezione: quando si va a fare un reportage in zona di crisi ci si va a confrontare anche con il dolore degli altri, con il privilegio di poter tornare a casa una volta che si pensa di avere raccontato tutto quello che sembrava necessario. Con un volo d’aereo si passa da un ambiente estremamente stressante ad un ambiente tranquillo e famigliare, la nostra vita di tutti i giorni.
In questo caso invece eravamo noi la notizia e non c’era un inizio e una fine, anche tra le mura domestiche i telegiornali parlavano della situazione italiana, senza la possibilità di staccare mentalmente.
Un conto è vedere un telegiornale che parla di notizie nelle diverse parti del mondo, un conto è che la notizia principale sia sotto casa.
Questo ti ha spinto a lavorare in maniera diversa? Ad esempio la scelta del bianco e nero che caratterizza l’esposizione è legata ad un sentimento diverso?
Quello in realtà è stato più che altro un discorso estetico: questo lavoro, di 48 scatti è il compendio di quattro settori specifici in cui ha lavorato Medici Senza Frontiere, ovvero il carcere di San Vittore, l’ospedale di Lodi, una Rsa e delle strutture occupate a Roma). In questi quattro contesti c’erano delle scenografie estremamente differenti e il bianco e nero ci ha consentito di dare continuità cromatica e divulgativa ad un lavoro estremamente variegato.
Già l’anno scorso parlavamo – nell’ambito della mostra World Press Photo – del concetto di distanza e confidenza nel raccontare le diverse situazioni attraverso la fotografia. Nel tuo percorso di fotogiornalismo leggevo della disponibilità di persone incontrate che volevano raccontare la loro storia. In questo caso invece credo che vi fosse un tema di privacy nel racconto: come lo hai vissuto? Cosa ha significato poter lavorare più con gli operatori che con le vere vittime?
Assolutamente è stato un tema centrale, vi è un grosso discorso di privacy in questo lavoro. Non a caso in gran parte delle foto le persone sono irriconoscibili e quelle che sono riconoscibili hanno dato ovviamente un assenso orale o scritto. La distanza l’ho vissuta in questo senso: quando ad esempio fotografi in un campo profughi o in una situazione di conflitto non è prassi e non è richiesto un consenso, in questo caso è stato diverso, era in sostanza la prima volta che lavoravo in Italia è c’è stato un discreto stop nella fluidità del lavoro a cui sono abituato.
E in più qui c’era la distanza del Covid e l’estrema difficoltà ad avere l’accesso ai luoghi che poi ho fotografato: ovviamente in questo senso il fatto di avere il supporto di Medici Senza Frontiere aiuta per la sua credibilità assolutamente incontestabile.
Un esempio: le Rsa non sono mai state una notizia. Sono balzate agli onori della cronaca quando sono iniziate le morti nelle stutture e tutto hanno fatto tranne aprire alla possibilità di foto da parte dei giornalisti. Il fatto di avere foto di queste strutture è davvero un documento abbastanza esclusivo, così come per l’ospedale: una volta aperte le porte ho trovato una totale apertura nel mostrarmi quello che stava succedendo, così come è successo all’interno del carcere di San Vittore.
Quindi nel complesso so di essere stato un privilegiato, cosa a cui tra l’altro non sono abituato, nel mio lavoro c’è spesso la necessità di instaurare un percorso diverso e di fiducia, con conoscenze e permessi che sono da conquistare e di cui non si ha reale sicurezza.
La tua macchina fotografica si è concentrata su uno sguardo complessivo al dolore dei pazienti, sugli operatori, o su cosa altro ancora?
Sicuramente il personale sanitario, insieme ovviamente ai pazienti, è stata la fascia più stressata per almeno un mese e mezzo o due. C’è una foto che racconta lo sguardo di un medico in terapia intensiva e che mostra tante sfumature: c’è la tensione, la fatica, l’apprensione. E non dobbiamo dimenticare che queste fasce di operatori hanno rischiato in prima persona con numeri di contagio piuttosto elevati.
Credi che questo lavoro possa cambiare l’impostazione dei tuoi prossimi progetti?No, non credo, nonostante le difficoltà che possono essere diverse, quello che dico sempre è che mi sento di avere semplicemente portato dieci anni di esperienze in contesti difficili all’interno di un reportage nel mio paese d’origine.
Il fatto di entrare in un reparto ospedaliero ti ha fatto sentire di avere in qualche modo invaso la privacy delle persone?
Sinceramente rimane una componente necessaria del lavoro: non era la prima volta che entravo in un ospedale, anche in situazioni critiche di dolore e fa parte della professione.
L’ultima curiosità è quella tecnica: questo lavoro è sicuramente diverso da altri tuoi reportage, per gli spazi più chiusi, per le luci diverse e altri elementi particolari rispetto ad altri contesti.
Tecnicamente ci sono due tipi di approccio in questo lavoro: uno classico con macchina fotografica, obiettivo e luce naturale dove sta al fotografo trovare le condizioni naturali per trovare la luce desiderata.
Nel lavoro in Rsa invece invece c’è stata una post produzione diversa da come l’avevo immaginata: ho sempre scattato con il flash al soffitto e questo azzera i contrasti e con una leggera sovraesposizione che andava a creare questo bianco etereo che restituiva quella sensazione di limbo, sospeso, etereo che caratterizzava quell’ambiente. Per uniformità però era necessario fare un lavoro di uniformità per la mostra nel complesso, se dovessi scegliere di pubblicare le foto singole sicuramente lavorerei diversamente a livello di luce ma in questo caso era importante mantenere una coerenza.
Alessio Romenzi è un fotografo freelance specializzato nelle tematiche sociali in contesti di crisi. In Medio Oriente dal 2009, i suoi lavori sono apparsi su testate nazionali e internazionali, come Guardian, Time Magazine, Newsweek, New York Times, International Herald Tribune, Washington Post, Le Monde, Le Figaro, El Mundo, El Pais, Der Spiegel, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Internazionale, L’Espresso. Ha ricevuto importanti riconoscimenti come il 2013 World Press Photo e la foto dell’anno UNICEF per la documentazione del conflitto siriano.
Don’t leave me alone – Alessio Romenzi – Medici Senza Frontiere
Pac-Padiglione di arte contemporanea
sab 3 ott, ore 15.00 – 22.00
dom 4 ott, ore 10.00 – 20.00
da mart 6 a dom 18 ott, ore 10.00 – 13.00 e 15.00 – 18.00
chiuso il lunedì