Che cosa rende così diverso lo sguardo femminile da quello maschile? Perché ‘una madre certe cose le capisce con uno sguardo’? Su che base diamo per scontato che qualcosa sia esteticamente migliore quando ‘si vede il tocco femminile’?
Al di là di qualsiasi preconcetto ideologico è innegabile che uomini e donne abbiano sguardi differenti, senza alcun giudizio di valore. Ma dove divergono queste due maniere di osservare? E al loro interno quante diverse sfumature possono esistere? Ho provato a darmi una risposta passeggiando tra le sale della Palazzina della Marfisa, sede della diciottesima Biennale Donna, visitabile fino al 22 novembre 2020.
Attraversare l’immagine sono quarant’anni di storia, quarant’anni di dettagli, episodi, vite, panorami. 13 fotografe con 13 approcci completamente diversi eppure così chiaramente riconducibili ad una unica e coinvolgente necessità espressiva. Anni ’50 – anni ’80: un periodo così significativo e complesso che va ripercorso in bianco e nero.
L’impegno sociale, e conseguentemente politico, di tutti e tredici i progetti è qualcosa che oggi facciamo fatica a ritrovare. “…Credevamo che si potesse cambiare qualcosa con la fotografia, che fosse uno strumento di denuncia” ci racconta Paola Agosti, tra le fotografe che vedremo esposte, sotto un velo di dolce nostalgia.
Ci accompagna nella visita la curatrice Angela Madesani; di nuovo, uno sguardo femminile e appassionato, che riesce ad aggiungere punti di vista nuovi alla già solida architettura visiva delle fotografe. Si inizia dallo scatto di Diane Arbus, che non ha bisogno di presentazioni. Qui l’occhio è complice, è relazione tra la fotografa e i soggetti, ma è anche una strana narrazione che lascia spazio alle più tenere interpretazioni, fuori dal tempo e dallo spazio.
Sul filo del rasoio narrativo anche l’impressionante progetto Morire di classe di Carla Cerati, realizzato assieme allo sguardo di Gianni Berengo Gardin. Nell’epoca della rivoluzione di Basaglia, della sua lotta contro la situazione manicomiale in Italia, il reportage della Cerati e di Berengo Gardin ha dimostrato che la fotografia è stata davvero in grado di dare una mano a cambiare le cose. Lo sguardo della Cerati si fa cupo, vicino, indignato mentre ritrae un’umanità violata e inconsapevole.
Totalmente opposta la sensazione che ricrea l’occhio di Lori Sammartino mentre ritrae l’altra Italia, quella del boom economico, quella normodotata che lavora, produce, guadagna e si compiace. Una nazione semplice che scopre le sue necessità quotidiane e le converte nel suo piccolo mondo eterno, bloccato nel tempo. ‘W i parlamentari’ leggiamo chiaramente sul primo scatto – sarebbe curioso postarlo oggi su Facebook e leggerne i commenti.
Risponde alla Sammartino il lavoro di Giovanna Borghese. L’altro lato dell’industria, quello scioperante e scontento.
Paola Agosti invece ci fornisce entrambe le facce della medaglia con il suo reportage dal Sudafrica degli anni ’80. “Per un bianco era vietato documentare la vita dei neri – abbiamo la fortuna di sentirci raccontare dalla Agosti in persona -. Riuscivamo a fare qualche foto solo la domenica mattina quando i guardiani bianchi andavano a messa. Il mondo dei bianchi era inaccessibili ai neri, ma anche viceversa”. Così facciamo la conoscenza del mondo bianco, timorato di Dio, che indossa buffi cappellini e fa colazione con il vestito buono, ma anche dell’Apartheid e dei tremendi cartelli che limitano il quotidiano del popolo nero.
Si lega alla produttività industriale anche l’indagine di Lisetta Carmi che, non senza difficoltà, ha saputo intrufolarsi (da donna fotoreporter, non dimentichiamolo) tra i cantieri navali genovesi. I tagli ragionati degli scatti della Carmi sembrano in totale antitesi con l’urgenza tipica del reportage. I paesaggi raccontano porzioni di vita sospese, anche dove l’uomo non rientra nella rappresentazione.
Con Chiara Samugheo ci collochiamo volutamente e precisamente in epoca e luogo: siamo nell’Italia meridionale della fine degli anni ’50. Il suo reportage aspira all’imparzialità ma è chiaro il coinvolgimento emotivo di una fotografa che affonda le sue radici proprio in quel Sud. Scendendo geograficamente ancora un poco, veniamo catturati dagli occhi profondi e sfrontati di un’altra giovanissima donna, ritratta da Letizia Battaglia. Nelle donne di Palermo, la Battaglia, si ritrova con affetto, e con lo stesso indissolubile legame emotivo, ritrae la sua Sicilia, estrapolandone i lati più oscuri come se questo potesse aiutarla a catturarli e trasformarli. Una Sicilia ‘sfrontata e orgogliosa’ che non ha paura di farsi vedere ammaccata perché ha forza e cuore per rinascere ogni giorno.
Poi una sala perfetta, in equilibrio tra caos e ordine, tra rivolta e pace, tra flusso e rigidità. Da un lato Françoise Demulder, la prima donna vincitrice di un World Press Photo, nel 1977, racconta Cambogia e Libano. Stanchi, feroci ma solo per necessità. Due mondi in rivolta che non hanno scelto il loro destino. E dall’altra parte la precisione formale e geometrica di Petra Wunderlich con le sue architetture perfette. La pazienza della costruzione, la solennità degli edifici religiosi, la staticità indifferente dell’architettura.
Torna l’occhio coinvolto e complice con gli scatti di Leena Saraste. La Sarastre parla di morte, di martirio, di disperazione e di rovina nei campi palestinesi del Libano, anni ’80. Un’estetica cinematografica alla quale manca solo il sonoro.
Chiudono la mostra i due lavori più introspettivi; Mari Mahr omaggia Lili Brik utilizzando fotografie di famiglia. La musa di Mayakovsky fu rimossa dalla cultura sovietica perché il suo marcato stile borghese avrebbe potuto influenzare le nuove generazioni: la Mahr ridona valore a tutti quei simboli teneramente borghesi che fanno parte delle vite di entrambe.
Poi Francesca Woodman, a chiudere il cerchio dello sguardo femminile. Chi meglio di lei. La presenza-assenza tipica degli scatti della giovanissima, e scomparsa, fotografa, riassume tutti i sottili interventi emotivi che ritroviamo in ogni lavoro. Forse è questo ciò che rende così intenso lo sguardo femminile? La capacità di esserci, sempre, ma mai platealmente.
Non credo si possa dare una risposta universale alla mia domanda iniziale. Ogni sguardo si posa in maniera diversa su dettagli che condividiamo raramente. La discrezione di un occhio coinvolto, sia esso femminile o maschile, lascerà sempre un’impronta. Ritengo doveroso sottolineare, però, che attraversando l’immagine della Biennale Donna di quest’anno non troverete mai un punto di vista banale.