C’erano una volta, in un piccolo paese vicino ad una piccola città, dei bambini ed una scuola. I bambini erano come tutti gli altri bambini: diversi gli uni dagli altri perciò unici. Anche la scuola era come tutte le altre scuole ma anche lei era unica. Certi bambini avevano un po’ paura della scuola ma ciò succedeva perché lei era grande, loro erano piccoli e ancora non si conoscevano. Del resto succede così anche agli adulti, pure loro hanno un po’ paura delle cose che non conoscono, anche se non lo dicono. […] Un giorno come gli altri, in quella scuola e in quel paese successe una cosa brutta.
tratto da “i bambini senza corona”,
racconto inaugurale dell’anno scolastico, di mauro presini
A seconda delle regioni, ma parliamo di pochi giorni di distanza, le scuole in Italia sono state chiuse tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo 2020, un anno che pareva destinato ad essere ricordato per le Olimpiadi, una nuova elezione americana, la definitiva Brexit, iniziata ufficialmente il 31 gennaio, con il timido eco di un virus in una città cinese, Wuhan, che si diffondeva con scene inedite, ma distanti da noi.
E invece.
Il dibattito sulla riapertura delle scuole è iniziato allora, quando sembrava un istante di incredula sospensione in un costante flusso ordinario, finchè non abbiamo man mano preso coscienza che quella era la nuova normalità: la convivenza con il virus.
In quei mesi, una mattina, all’interno di un programma di attualità su Radio24 abbiamo ascoltato un intenso intervento di Mauro Presini, ferrarese insegnante della scuola primaria, noto blogger sui temi della didattica (e non) che ieri ha inaugurato un nuovo ciclo di istruzione, con una classe prima all’istituto Bruno Ciari di Cocomaro di Cona.
L’abbiamo coinvolto per raccontare un primo giorno di scuola, che quest’anno è diventato, per importanza, un evento analogo all’unico altro giorno scolastico che permea il nostro immaginario collettivo (si, la maturità). Un racconto del primo giorno di scuola che non sia dedicato a mascherine, distanziamento o regole da seguire, ma a stati d’animo, parole, uso del linguaggio, sentimenti.
“Non vedevamo l’ora: con i bambini diventa tutta un’altra cosa. Le settimane precedenti sono state dedicate agli spazi, alla segnaletica, all’organizzazione dei banchi. Oggi invece c’è stata questa strana e bella sensazione di attesa e fremito della partenza, difficile da far comprendere in chi non fa questo lavoro, specialmente con le classi prime”, racconta Mauro.
“Non potevamo far finta che questo periodo non fosse esistito: abbiamo accolto tutti i bambini nel cortile esterno, con i genitori dietro di loro e dopo esserci presentati ho letto questa storia (un estratto nell’incipit del’articolo, ndr), che ho scritto per raccontare sotto forma di metafora quello che è successo in questi mesi: una storia che parlava del virus, del mondo che cambiava e di una scuola triste, abbandonata, senza studenti.
Non abbiamo trovato particolari difficoltà nello spiegare in quale contesti usare la mascherina o perchè farlo: i bambini lo sapevano benissimo.”
E il racconto di questa partenza è particolare, dopo mesi vissuti nell’incubo di come potesse andare questo rientro, ci arriva invece il sospiro di sollievo del poter ricominciare con i bambini all’interno e di come tutto sia in fondo più facile, all’interno di un percorso condiviso, rispetto all’analisi di fredde procedure ministeriali.
“Abbiamo voluto dare l’impressione della specialità di un primo giorno e non di una specialità nel periodo storico della malattia, pieno di regole e imposizioni. Un percorso segnato da una nuova normalità da iniziare assieme e di cui la storia raccontata finisse senza un finale, ovvero con un inizio e una trama ancora da scrivere.”
“Le regole, in fondo, all’interno della comunità scolastica sono più semplici di come le raccontiamo. Quello di cui abbiamo bisogno maggiore è di occuparci dei cambiamenti a livello educativo, più che della gestione sanitaria: in questi mesi ci siamo concentrati maggiormente sulla seconda, senza chiederci se e come sia possibile fare una buona scuola in un contesto come questo.”
Chiedendo a Mauro quali siano i cambiamenti più importanti (e applicabili) alla filosofia educativa della nostra scuola, ci spiega innanzitutto il tema della spazialità, ovvero di utilizzare in maniera diversa gli spazi aperti e il riuscire a recuperare percorsi già intrapresi sul lavoro in gruppo o in coppia per stimolare un apprendimento condiviso, con i bambini che imparino ad aiutarsi e ad insegnarsi reciprocamente.
“Esistono temi ancora lontani da noi rispetto ad altri paesi ma verso cui tendere, come quello dei gruppi d’interesse, in età più avanzate (anche se non necessariamente), dove si ragioni su classi che si fondono per aree tematiche, andando a rompere l’unità della classe stessa; o ancora l’idea di arredi come tende o divani per creare spazi più famigliari o laboratori aggiornabili nel tempo per inserire nuove attività e creare un contesto che stimoli e sia luogo da vivere.”
In questo periodo l’impegno verso la scuola è stato un impegno dedito a tamponare per il presente, non pensato per scommettere in ottica futura”
Mauro ci racconta della “Gazzetta del Cocomero” giornale scritto e finanziato autonomamente da oltre vent’anni dai bambini (e dalle famiglie) della scuola di Cocomaro e di esperienze simili che hanno un unico scopo: far percepire a questi giovani che insieme, con impegno, si può riuscire a fare qualcosa di tangibile.
“Ho paura di una scuola che insegna ai bambini a rimanere al proprio posto, ad essere un soggetto passivo dell’insegnamento, quando è straordinario quello che si riesce a fare non solo ascoltando le loro proposte, ma anche costruendole assieme”.
“E in una realtà come questa che non ascolta tanto gli altri, si tendono a percepire i bambini come soggetti passivi di cui si devono occupare gli adulti: giustissimo, ma prendersi cura di un bambino vuol dire ascoltare, crescere, accompagnare, non soltanto accudire.”
Sul finale della nostra telefonata, parlando del linguaggio che può e deve cambiare con questi bambini che pure sono estremamente consapevoli della realtà che li circonda, Mauro ci racconta di un percorso precedente a questa nuova classe, dove è successo di affrontare il tema della morte di un piccolo compagno di classe (o del genitore, in passato). Anche quel momento diventa un istante in cui la scuola deve affrontare ciò che succede, perché, sia che si parli di Coronavirus, sia di morte, quando gli adulti non affrontano un tema insegnano che bisogna tenerselo dentro e non affrontarlo, coprendolo di un violento silenzio che non aiuta la maturazione.
“C’è bisogno di parlare con i bambini di tutto quello che accade. Tutti abbiamo paura di qualcosa, spesso perchè non la conosciamo ed è necessario che l’insegnamento sia calato nella realtà quotidiana. E i bambini questo lo percepiscono e quando avvertono la distanza dalla loro vita si annoiano e sentono di essere considerati meno di quello che sono”.
E per qualche motivo viene da pensare ad un grande romanzo (Molto forte, incredibilmente vicino, di Jonathan Safran Foer) in cui Oskar, nove anni, vive il dramma di un padre morto nell’attacco alle Torri Gemelle e fa sua l’idea di variare la realtà, come se si potesse, come se le tragedie possano diventare occasioni, come se si possa uscire migliori dai momenti più nefasti della nostra collettività: un augurio che facciamo ai nostri piccoli di oggi, i grandi del futuro.
“Ho letto che è stata la carta a tenere acceso l’incendio nelle torri. Tutti quei quaderni, le risme di fogli per fotocopie, le stampate delle e-mail, le foto dei figli, i libri, i dollari nei portafogli, e i documenti negli archivi… Erano combustibile. Forse se vivessimo in una società senza carta, come un sacco di scienziati dicono che un giorno succederà, papà sarebbe ancora vivo.
da “molto Forte, incredibilmente vicino” jonathan safran foer
Ho preso la torcia dal mio zaino e l’ho puntata contro il libro. Ho visto le cartine, i disegni, le foto prese dai giornali e riviste e da internet, e quelle che avevo scattato io con la macchina del nonno. C’era tutto il mondo lì dentro. Finalmente ho trovato le foto del corpo che cadeva.
Era papà?
Forse.
Chiunque fosse, era qualcuno.
Ho strappato le pagine dal libro.
Le ho rimesse in ordine al contrario, in modo che l’ultima fosse la prima e la prima fosse l’ultima.
Le ho sfogliate velocemente e sembrava che l’uomo stesse alzandosi in cielo.
E se avessi avuto altre fotografie, sarebbe volato dentro una finestra e dentro la torre, e il fumo sarebbe stato aspirato nel buco da cui l’aereo stava per uscire.
Papà avrebbe lasciato i suoi messaggi a rovescio finché la segreteria sarebbe stata vuota, e l’aereo sarebbe volato indietro, fino a Boston.”
1 commento
Articolo molto interessante e interessante far conoscere il pensiero di un insegnante come Presini che usa per l’insegnamento e nella sua vita l’intelligenza e il cuore. Grazie