Un mondo senza musica sarebbe come il cielo coperto prima di un temporale, e noi senza la musica saremmo come pesci intrappolati in una piccola boccia. La musica allevia ogni delusione, aiuta a concentrarsi, colora la nostra routine. Per qualcuno la musica è uno stile di vita. Per Sarah Bonamici, che a soli 19 anni ha già pubblicato il suo primo album, è proprio così.
Come nasce la tua passione per la musica?
Ero molto piccola, ed è stato assolutamente per caso che ho scoperto che mi piaceva cantare. Ho iniziato recitando nei musical, mescolando quindi ballo, canto e recitazione, poi però ho capito di volermi specializzare nel canto. A dodici anni ho iniziato a scrivere le prime canzoni, poi, da autodidatta, ho imparato a suonare un po’ la chitarra, ma soprattutto il pianoforte, strumento con il quale tutt’oggi mi accompagno per scrivere i testi delle mie canzoni.
Da cosa prendi ispirazione per i tuoi brani?
Un sacco di volte ho sentito dire che gli artisti danno il meglio di sé quando stanno male, e detto così sembra drammatico, però nel 90% dei casi, il momento di scrivere una canzone non arriva perché si è andati a Disneyland. L’ispirazione arriva da un avvenimento forte, vissuto in prima persona o da qualcun altro. Si incontrano spesso persone che non hanno voce o il coraggio di esporsi, che hanno però un bagaglio di esperienze che devono essere condivise perché possono servire ad altri. Con la mia musica vorrei anche questo, dare voce alle persone che non possono parlare, che non se la sentono di farlo. Scrivere musica per me è principalmente uno sfogo: mi siedo al pianoforte e inizio a comporre una melodia, poi esce il resto.
Come nasce il progetto del disco?
A 16 anni, vincendo un concorso, ho conosciuto il mio attuale produttore discografico: il premio era produrre gratuitamente un brano nello studio San Luca Sound, un’etichetta indipendente di Bologna. Essendo un concorso dedicato a ragazzi molto giovani, il massimo che ci si poteva aspettare era la registrazione di una cover. Quando però mi sono presentata in studio ho proposto un inedito scritto tre giorni prima dal titolo Young. Era il novembre 2016 e da li è iniziato il progetto del disco, che è uscito esattamente tre anni dopo, lo stesso giorno: è incredibile ma sembra davvero tutto collegato!
Continuiamo a parlare del disco…
Mountain Top è composto da 10 brani e rappresenta il disastroso cambiamento che ho vissuto in questi anni, un percorso di crescita personale che è stato indispensabile per trovare la mia identità artistica. Quando ho iniziato ero molto piccola, avevo uno stile che poi è andato via via maturando e oggi rappresenta di più chi vorrei essere in futuro.
Il disco si può ascoltare in streaming su qualsiasi piattaforma, ma è disponibile anche in copia fisica e per acquistarlo basta contattarmi direttamente.
Dopo circa un mese dall’uscita si trovava alla 18esima posizione su Spotify, nella classifica europea degli artisti indipendenti. Un ottimo risultato perché in quella classifica c’erano nomi come Ultimo, i Modà, Renato Zero, Fiorella Mannoia, Ermal Meta, Fabrizio Moro, e il mio nome era in mezzo o addirittura sopra a questi.
Di cosa parlano i tuoi brani?
Abbiamo creato un progetto, pubblicato sulla mia pagina FB a puntate, con la spiegazione di ogni brano. Anche se credo che il significato di una canzone debba essere dato principalmente da chi la ascolta. Mountain Top è il brano a cui tengo maggiormente, perché mi ha permesso di incontrare Dodi Battaglia, che dopo averlo ascoltato ne è rimasto colpito e mi ha detto più o meno “Se non fai qualcosa con questo brano ti ammazzo!”. Una semplice frase che mi ha motivata a proseguire, poiché produrre un disco è una grossa spesa, e si arriva ad un punto in cui è necessario chiedersi: “Voglio continuare seriamente o fermarmi qui?”.
Hai scelto la lingua inglese!
Non ho mai deciso di scrivere in inglese, ho iniziato scrivendo in inglese perché mi veniva più naturale, in quanto sono bilingue. Se avessi voluto cantare un mio brano in italiano avrei dovuto tradurlo, e credo che la traduzione pseudo letterale faccia perdere un pò la magia del testo. Le prime canzoni prodotte erano in inglese, quindi per coerenza al progetto tutte le altre avrebbero dovuto esserlo. Ma siamo in Italia e sono italiana, nessuno dice che in futuro non possa scrivere canzoni in italiano.
Cosa pensi dei talent? Parteciperesti?
È una cosa triste e sbagliata pensare che per sfondare nel mondo della musica sia necessario partecipare ad un talent. Non dovrebbe essere così. Nei primi anni i partecipanti riscuotevano effettivamente un certo seguito e riuscivano ad ottenere buoni contratti, oggi invece vedo tanti che si vendono per un quarto d’ora di televisione. Fare musica non deve essere questo, per questo non ho mai preso in considerazione l’idea di partecipare ad un talent, ho idee completamente diverse riguardo a come si dovrebbe promuovere la propria musica. Ho ricevuto tante proposte, anche dalle stesse redazioni dei programmi, ma non ho mai accettato, prima voglio provarci con le mie forze.
Cosa consiglieresti ad un ragazzo/una ragazza che ha la tua stessa passione?
Innanzitutto di studiare tanto, perché ci sono tanti cantanti e artisti che dal punto di vista tecnico vocale sono impreparati. I cantanti devono studiare tutta la vita, non basta farlo fino a vent’anni e poi smettere, perché nel momento in cui manca una valida base tecnica si tende a durare molto poco. È necessario poi imparare a stare su un palcoscenico, e in questo l’aver fatto spettacoli teatrali mi ha aiutato tantissimo.
Sei iscritta anche all’Università, come riesci a conciliare tutto?
Ho scelto due percorsi uno più difficile dell’altro, sono iscritta al primo anno di Giurisprudenza all’Università di Ferrara, che sicuramente non è una facoltà semplice, ma come in tutto ciò che faccio non scelgo mai la via più facile. Tutte le scelte che ho fatto mi hanno sempre affaticata, ma mi hanno soddisfatta portando risultati concreti. Sono una persona che quando prende un impegno o fa cento o non fa nulla. Non è semplice conciliare le due cose, però “Chi si ferma è perduto”. È necessario avere ogni secondo organizzato. Serve tanta forza di volontà.
Come hai vissuto il periodo del lockdown?
Per me è stata una situazione molto pesante, che ancora non si è conclusa del tutto. Prima del lockdown stavo lavorando ad un progetto che doveva fungere da trampolino di lancio per una nuova situazione discografica: ero stata in studio per registrare un nuovo singolo e mi sono ritrovata la sera del primo DPCM a dover bloccare tutto. Ovviamente nessuno immaginava che la situazione si sarebbe protratta così a lungo e le misure che sarebbero state adottate, per ora però non ci è permesso riprendere… il progetto non è stato solo rimandato, ma proprio annullato.
Durante i mesi primaverili avrei dovuto fare anche un tour promozionale del disco e anche questo non è stato possibile e per via delle misure restrittive in atto la stagione estiva è saltata per tutti, ma mi sto adoperando per organizzare qualche serata nel rispetto delle misure poste. Nel frattempo ho scritto tantissimo, quasi una ventina di brani, dove ho cercato di raccontare quello che tutti stavamo vivendo. Ho deciso però di non partecipare a concerti online perché ho percepito molti di questi piuttosto celebrativi, e secondo me era un momento in cui c’era poco da festeggiare, bisognava invece dare rilevanza alle notizie giuste.
Chi sono i tuoi riferimenti musicali nel panorama italiano di oggi?
Penso che molti artisti siano eccessivamente demonizzati. Ad esempio, ho immensamente apprezzato le performance di Achille Lauro a Sanremo. Ogni performance ha creato un mondo a sé. In un contesto come Sanremo è molto difficile portare cose fuori dal comune, e lui c’è riuscito e l’ha fatto in maniera eccellente. Ci sono però artisti molto seguiti dai giovanissimi che non hanno alcun limite. I musicisti vivono di libertà di espressione, però se questa libertà deve ledere in qualche modo la libertà altrui, non andrebbe accettata, perché automaticamente diventa violazione.
A livello sonoro invece alcuni come Mahmood e Francesca Michielin, stanno spaziando utilizzando sonorità più aperte all’internazionalizzazione. E questo è quello che spero di sentire nella musica italiana del futuro. Meno melodie classiche all’italiana, meno attaccamento alle radici e se riuscissimo anche a mandare messaggi un po’ più positivi sarebbe meglio.
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Per seguire Sarah:
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