Dal 10 giugno su Netflix è possibile guardare una nuovissima serie di produzione italiana. Si chiama Curon, ed è ambientata nell’omonimo paesino in Trentino Alto Adige, diventato famoso per l’emblematico campanile che sorge solitario e imponente dalle immobili acque del lago di Resia. Si trova ancora al suo posto da quando il paese di Curon Venosta venne sommerso nel 1950 per creare il bacino artificiale, e la popolazione spostata poche centinaia di metri più in alto, tra molte polemiche.
Da appassionata di serie tv e da assidua utente di Netflix, ho rivolto qualche domanda a Lyda Patitucci, regista ferrarese che insieme a Fabio Mollo ha firmato la serie, girando in particolare i 3 episodi finali.
Lyda, come è nato il progetto di Curon?
Nasce dalla fantasia del gruppo di scrittori che hanno immaginato una storia a partire dalla suggestione unica del campanile sommerso e delle leggende ad esso legato. Il progetto prende vita grazie al grande coraggio di Indiana Production che ha deciso di dare loro credito volendola raccontare, e di Netflix che l’ha reso possibile. Sicuramente ha contribuito anche una consistente dose di allegra follia che ha travolto tanto il regista Fabio Mollo quanto me, nel volerla mettere in scena.
Il paese di Curon ricorre anche in altre creazioni artistiche, in narrativa ad esempio penso subito al libro Resto qui di Balzano del 2018. Quel piccolo paesino tra i monti sembra essere un luogo magnetico che ha incuriosito molti… la leggenda inquietante, da cui prende spunto l’intera serie, dice che ogni tanto si sentono ancora suonare le vecchie campane… Anche se sono state rimosse dal campanile nel 1950.
In realtà mi verrebbe da risponderti che per quanto è affascinante, magico ma anche simbolico quel luogo è stato usato pochissimo in narrativa. È una fonte di suggestioni infinite nonché memento degli accadimenti storici che hanno travolto quell’area, su cui tanto c’è da scrivere e raccontare.
Dove risiede la magia e il mistero di quel luogo? Nelle riprese notturne di Curon sembra senza tempo, osservatore indifferente degli abitanti del paese, custode di segreti oscuri… Che impressioni hai avuto?
La Val Venosta come tutto il Trentino Alto Adige è di una bellezza mozzafiato. Lì la natura imponente domina il paesaggio e determina la vita dell’uomo, in armonia o in contrasto. Tanto Indiana Production quanto Netflix hanno deciso di investire su questa bellezza permettendoci di effettuare tutte le riprese nelle locations reali, cosa non affatto semplice ma nel nostro caso quasi necessaria. Lo scenario è infatti parte integrante della nostra storia, della messa in scena, diventando un personaggio esso stesso. La natura che ci ha accolto e regalato scorci, panorami e ambientazioni uniche ci ha messo più volte alla prova. Girare tanto in setting esterni significa infatti essere soggetti alla trasformazione climatica e metereologica con le difficoltà che comporta, ma anche con le opportunità visive che a questa corrispondono.
Un prodotto cinematografico con elementi soprannaturali che virano a volte verso l’horror è insolito per il mercato italiano, ed è una bella novità. Siamo abituati a trovarli in produzioni estere, penso ad esempio a Dark, o a Stranger Things tanto per stare in ambiente Netflix.
È un genere da sempre molto richiesto. Certo, il pubblico italiano è più propenso a guardare i prodotti che giungono dall’estero che quelli nostrani. Nei decenni è un tipo di produzione che è stata molto accantonata in Italia, è diventata marginale nel settore e affidata a sporadici casi. Si è persa la consuetudine, forse l’allenamento a questo tipo di racconto su cui non si è investito. È un cane che si morde la coda: non produciamo queste storie che spesso hanno un costo sostenuto perché si ha paura del preconcetto del pubblico che disabituato a vederle prodotte da noi è diffidente rispetto alla qualità. Del resto quando vengono realizzate spesso non hanno il giusto supporto economico e non possono quindi competere con i prodotti di altri paesi che hanno budget molto maggiori. Insomma, chi vuole raccontare questo tipo di storie deve fare uno sforzo, andare avanti un po’ a testa bassa per fare sempre di più e sempre meglio, tornando a conquistare credibilità in questi generi. Tornando a Curon, spero che il pubblico abbia voglia di darci una possibilità iniziando a guardare la serie, e che si intrattenga nel farlo.
Come hai vissuto la collaborazione con gli attori e con i colleghi di regia?
Questa serie non si sarebbe potuta realizzare senza un gruppo di lavoro fantastico e appassionato come il nostro. Per quanto riguarda gli attori mi sento di dire che tanto i giovani quanto gli adulti si sono dati anima e corpo a questo progetto molto duro fisicamente per le condizioni di ripresa. Abbiamo chiesto loro di fare tanti sforzi, di mettersi alla prova sotto molto punti di vista e l’hanno fatto con grande generosità, mettendosi in gioco e sfidando anche le loro paure. Per me è stata una fortuna immensa lavorare con loro come lo è stato avere Fabio Mollo come compagno di viaggio. Con lui c’è stata da subito una grande condivisione di intenti e di vedute, la volontà di collaborare e di mettere l’uno a disposizione dell’altro le proprie competenze e specificità, diverse e spesso complementari. Ci siamo sempre aiutati e supportati, cosa non affatto scontata.
Come donna hai mai vissuto delle situazioni di disuguaglianza o di difficoltà in ambito professionale?
Purtroppo noi donne ci troviamo a dover fare spesso più fatica dei colleghi maschi per ottenere fiducia e riconoscimento, nonché la stessa retribuzione economica. Prima ancora di iniziare a lavorare insieme, di confrontarsi sul campo, bisogna impiegare molte, troppe energie per conquistare la credibilità di base. Specie se il ruolo che si ricopre è dirigenziale. Il mondo del cinema e della televisione non fa eccezione rispetto a tutti gli altri settori del nostro paese, molto molto molto retrogrado in tema di parità di genere. Detto ciò, per fortuna nel corso della mia carriera ho incontrato tante persone che mi hanno valutato solo per il lavoro svolto, come è giusto che sia.
Qual è il tuo film preferito e perché?
È quasi impossibile rispondere a questa domanda, sarei in difficoltà persino a stilare una top ten dei miei film preferiti perché sentirei sempre di escluderne qualcuno che ritengo fondamentale. Quindi ne dico uno a caso fra quelli che amo alla follia, cioè Fury Road, ma direi tutta la saga Mad Max. Amo la creazione di questi mondi apparentemente irreali e lontani dal nostro, ma molto rappresentativi di esso e dell’animo umano.
Hai vissuto molti anni a Ferrara, ogni tanto capita di tornarci? Che impressioni e sensazioni ti lascia questa città?
Ferrara è la mia infanzia, la mia adolescenza, è dove abitano i miei genitori e dove ciclicamente ci diamo appuntamento con gli amici di una vita. Ferrara è il posto dove tornare e da cui ripartire sempre. È una città che per me ha dei contorni, una geografia emotiva più che reale. Ho tantissimi posti cari, ma a due sono legata in maniera particolare: il bastione con l’albero, quello delle mura di Porta Mare vicino al Jazz Club per intenderci e piazzetta della Repubblica, che per noi però è sempre stata piazzetta della Luna. Ed è proprio per quel “noi” che entrambi i luoghi sono speciali.
I personaggi di Curon soffrono perché si sentono sradicati dal luogo che chiamavano “casa”, stanno tutti cercando di (ri)trovare la propria identità, di scendere a patti con sé stessi, nonostante tutto. Dov’è casa per te? Cos’è la ricerca dell’identità?
Casa è dove c’è la mia famiglia, le persone che amo. Casa è un concetto più che un luogo, è ovunque ma da nessuna parte. La ricerca della propria identità significa prendere coscienza di sé e del mondo. È un processo costante che forse corrisponde alla vita stessa.