Come ogni evento della vita, anche un disco ha una storia e come ogni storia è necessario contestualizzarla, perché anche il contorno è importante, come una cornice: evidenzia, sorregge, avvolge. Così questo disco si inserisce in un contesto storico particolare e ne ha subìto dirette conseguenze, prima rinchiuso nella sua data di uscita originaria (8 marzo, quando la conferenza stampa della Protezione Civile alle 18 era già il nuovo Carosello nazionale), poi spostato prima ad aprile e ora, infine liberato, come noi, esseri umani cambiati nei gesti e nelle parole, ma di nuovo liberi di uscire nelle strade in cui viviamo.
In questi mesi, forse a causa di una bolla informativa personale (o forse no) la sensazione è che l’evento mediatico da non perdere sia stata la serie tv “The Last Dance”, prodotta da Netflix e che racconta l’ultima stagione (e la carriera) di Michael Jordan.
È interessante trovare alcuni paralleli, perché la serie racconta la leggenda di un uomo che cercava il proprio trionfo, all’interno di uno sport di squadra (come una band, in fondo), con curiose analogie temporali (non a caso gli anni di differenza sono solo tre. 1960 contro 1963) con la storia di questo articolo, che ci porta a raccontare l’uscita del disco di Roberto Formignani, bluesman e Presidente dell’Associazione Musicisti della Scuola di Musica moderna di Ferrara.
E la prima sensazione, al telefono, è quella di un artista che prova immensa gioia nel fare finalmente uscire quello che è il primo album a proprio nome, nell’anno dei propri sessanta anni.
“Solitamente io sono la penna dei “The Bluesmen” band fondata dalle ceneri della storica Mannish Blues Band. Tutto nacque nei primi anni Duemila, con l’assessorato alla cultura della città che ci commissionò un disco grazie ai meriti acquisiti di band storica. Così decisi che era arrivato il momento di intraprendere una direzione diversa: bisognava rimanere nella scia delle sonorità blues ma scrivere pezzi inediti” ci racconta.
“Un processo nato con l’idea di metabolizzare la nostra musica con il territorio in cui viviamo, un’idea diversa nella nostra scena: il Blues si rifà ancora oggi alle sue origini, ad una tradizione che è nata quando c’erano ancora le lampade a petrolio, negli Stati Uniti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.”
Nello stesso periodo nasceva la pallacanestro, nell’America giovane e profonda piena di conflitti tra bianchi e neri, conflitto che ancora oggi fatica ad uscire da una società tecnologica quanto divisa.
“Due anni fa ero pronto per il quinto album della band e avevo questi pezzi in un cassetto da tempo, un pò dimenticati e che una volta tornati in vita suonavano in maniera diversa dal blues classico. E qui bisogna riconoscere che il popolo del blues è piuttosto conservatore, quando si esce dal canovaccio classico, addirittura discriminante, che fa sorridere vista l’origine all’interno della cultura afroamericana e dalla discriminazione stessa, eppure (in particolare, ma non solo) nella scena italiana c’è comunque una certa freddezza quando si esce dai canoni predefiniti. Questi brani, dicevo, erano un pò dimenticati: lo scorso anno sono andato in questa lunga tourneè con il progetto “The Liberation Project“ : terminato dopo quasi un mese di viaggio per l’Italia era finalmente giunto il momento di riprendere in mano queste canzoni. E mi piacevano molto. In più c’era del rock, del country, del folk e quindi, incentivato anche da conversazioni con il mio batterista ho iniziato a pensare di uscire a mio nome.”
Mi sono detto: sai cos’è? Cambiamo un pò aria e usciamo da quell’impeachment del blues e facciamo un pò quello che ci pare.
Ci hai detto che è un disco che, diversamente da altri lavori, ti ritrovi ad ascoltare quasi ogni giorno con passione. Questa passione nasce dal fatto che è un lavoro molto personale e coltivato lungo un arco di tempo importante, rispetto ad un disco registrato in studio con la band come classicamente si usa fare?
A volte è il contrario: l’entusiasmo del lavoro in studio con la band porta ad un gasamento che nasconde poi piccoli errori compiuti sulla scia di quei momenti. E c’è l’aneddoto classico degli artisti, anche quelli più importanti, che non riascoltano mai i propri dischi una volta completati, per evitare di scoprire errori o esperimenti poco indimenticabili superato l’entusiasmo del momento.
Per me invece è stato l’opposto: ho lasciato in qualche modo decantare questo mio lavoro di ormai un anno e mezzo fa per poi riscoprirlo e lavorarci per trasformarlo nel disco compiuto. Ho mantenuto quello stesso entusiasmo che mi ha fatto capire di avere un ottimo lavoro tra le mani.
Ti chiedo una cosa a livello di testi. Le tracce del disco recuperano l’immaginario del blues, i topos narrativi canonici, ad eccezione di “Play For The Revolution” dove sembri rivolgerti direttamente alle giovani generazioni di oggi.
“Rivoluzione, contestazione, / è la generazione che mi piace / quando parlo con i ragazzi del giorno d’oggi / non posso credere in loro / mi ricordo tanta gente nelle piazze e nelle strade / con le bandiere e le chitarre / a protestare per la libertà /
la cosa veramente importante per i ragazzi/ è avere un sogno per lottare insieme / suona per la rivoluzione”“Play For The Revolution”
“Sicuramente hai ragione sui testi. Se ci si ferma ad analizzare, nel testo blues c’è una struttura canonica che è parte fondante della canzone blues e che include la ripetizione del tema, con una maggiore incisività nella seconda ripetizione. Allo stesso tempo io utilizzo la lingua inglese perchè è maggiormente musicale e considerato che per seguire le strutture armoniche tradizionali è meglio concludere le frasi con delle consonanti, l’inglese mi aiuta in questo processo.
In quel testo che citi c’è sicuramente il ricordo della generazione degli anni Settanta che con la musica faceva politica e poi c’è il passivismo attuale. Non a caso quando parlo di “axe” (asce) intendo in quel gergo dove per axe si intendeva la chitarra, perché in quel momento si pensava che andando in piazza con uno strumento si potesse cambiare qualcosa del mondo, professando i vessilli di libertà e uguaglianza. Adesso questo approccio, quello di avvalersi della musica per cambiare le cose, non esiste più ed è una cosa che mi dispiace molto, vedere come la musica non sia più un linguaggio delle nuove generazioni per cambiare le cose.”
Allargando un pò il campo al blues: come il jazz è sempre stato un genere molto conservatore, ma il jazz negli ultimi anni ha trovato interpreti e contaminazioni che gli hanno consentito di diventare più moderno e trovare spazio anche in festival musicali di largo pubblico (da Kamasi Washington a band come The Comet Is Coming… ndr). Ritieni che il blues con un percorso simile, possa tornare attuale?
“Chi adesso vuole usare la musica come canto e veicolo di libertà non utilizza il blues, ma si avvale di suoni e parole rap o della trap stessa. E in fondo chi ha fatto nascere il blues (le comunità afroamericane) l’ha poi abbandonato e chi lo segue ora è una comunità che ama mantenere la tradizione.”
Il blues oggi non è più un vessillo.
Dicevamo le analogie con la storia di Michael Jordan. Di come esista lo sport di squadra (la band “The Bluesman”) e il momento di una visione più privata (questo disco o l’ultimo tiro di una finale, in cui Air Jordan decideva le sorti) ma anche la sensibilità personale.
Il (più grande?) cestista tornò, a due anni del ritiro, con un numero di casacca diverso dal 23 che lo aveva accompagnato in carriera, per rispetto nei confronti della morte del padre, senza però sentire suo quel numero (vincerà poi tre titoli tornando alle origini).
E in questo disco c’è per la prima volta il suono dell’armonica suonata da Formignani. Per quindici anni dalla morte di Antonio D’Adamo, armonicista della sua band principale si scelse di non sostituirlo con nessun altro, per dovuto rispetto e ora, come mai prima, Roberto la suona in tre brani, un sensibile omaggio alla memoria di questo compagno di viaggio.
L’unica differenza (ma è la differenza tra l’epica delle leggenda e il racconto della normalità) è che Michael Jordan traeva ispirazione dall’avere un nemico, che fosse vicino (il manager, il compagno di squadra) o lontano (qualunque avversario, reale o immaginario) mentre questo disco nasce dal supporto, come quello dell’Associazione Musicisti di Ferrara, parte esecutiva in causa parallelamente alla totale libertà artistica dell’autore.
Ma il finale, leggenda a parte, è di vittoria interiore: che si tratti di mettere una palla dentro ad un canestro, o di pubblicare il primo disco a proprio nome uscendo un pò da quella tradizione, serve una dote comune: il coraggio di rischiare.
ASCOLTA L’ALBUM:Mai dire mai, perché i limiti, come le paure, spesso sono solo un’illusione.
[Michael Jordan]
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Sito Roberto Formignani