di Isabella Greghi
Ho sentito dire che scrivere aiuta. Serve nella rielaborazione mentale ed emozionale, facilitando la comprensione ed il significato di certi eventi e del proprio stato d’animo. E così, annotare giornalmente qualche pensiero, riflessione o idea si è trasformata in un’esigua speranza, in un riscatto. Fintantoché i giorni sono passati, i post-it affissi sulle pareti di casa sono divenuti troppi e io ancora mi chiedo quanto questo serva realmente a comprendere a ciò che sta accadendo, ma non mi è possibile, e non esiste nessun espediente, nessuna scappatoia. Mi chiedo solo quali strade percorreremo e dove ci porteranno in questo mare alto in cui non vedo terraferma e dove non ci sono appigli. Un mare dell’inconsapevolezza, dell’estraneità. Ho cercato di analizzare, dare un senso a tutti quei numeri scritti negli articoli. Ma poi ho capito che non porta a nulla provare a capire una situazione quando essa stessa è priva di risposte, significato.
Siamo stati tutti catapultati in una realtà alterata, dove autocertificazioni e mascherine sono segni distintivi, in cui città e Paesi sono isolati, dove i rapporti tra esseri umani avvengo a un metro di distanza e in cui il tempo si è dilatato e ha perso rilievo: non è un film dell’orrore o una di quelle serie tv di apocalissi, però ci assomiglia. Ma il fattore più sconcertante di questa ovattata realtà è il silenzio. Ed è a questo, più di ogni altra cosa a cui non siamo preparati e a cui non abbiamo cure; la veloce routine rispetto alla quale eravamo assuefatti, ci ha reso l’udito tanto falsato, da sembrarci il silenzio una melodia assordante. Come quando alla fine di un concerto hai quel fischio continuo nei timpani. Siamo talmente abituati a correre, ad affannarci, a cercare per forza qualcosa nella nostra quotidianità, che vivere forzatamente segregati ci terrorizza poiché obbliga a stare soli con se stessi, a guardarsi dentro. E così le nostre case si sono trasformate in gabbie dorate, anche se confortevoli, ma pur sempre quattro mura oltre le quali non è consentito uscire.
Non è il covid-19, siamo noi stessi il nostro vero nemico. E questo l’ho capito.
Dovremmo tutti imparare a vivere e non più solo sopravvivere. Dovremmo capire l’importanza di una giornata di sole, di respirare a pieni polmoni, di sorridere in un giorno qualunque, di fare una passeggiata all’ aria aperta, di un abbraccio. No, non sono valori che leggi sui giornali, non studi sui libri di scuola, né si trovano sui social. Ed è così stupido che serva un’epidemia per insegnarcelo, ma forse uno schiaffo forte a volte è il migliore degli insegnamenti. E in questa tragicommedia, siamo talmente incapaci di fermarci un attimo e di respirare, che ci sentiamo persi in casa nostra e, disorientati, ci appelliamo ai media come unico nostro alleato. Parliamoci chiaro: la tecnologia è un grande mezzo, talvolta indispensabile. Basti pensare anche in questa situazione quanto ausilio comporta, dall’informazione, alle piattaforme per donazioni, alle lezioni scolastiche telematiche. Ma non ci rendiamo conto che ne siamo diventati totalmente succubi, vittime. Tanto che se non si usa l’iPhone per un giorno le persone iniziano a credere che sia avvenuto qualcosa di grave!
Quella che stiamo vivendo è l’occasione per dedicare il giusto tempo alle persone che amiamo, per prenderci cura di noi stessi, per pensare. Mi piace guardare questa situazione come ad un’opportunità. Come principio di espiazione delle nostre colpe, l’amara punizione per un mondo che ha perso di vista i valori e princìpi fondamentali. Ci siamo presi beffa di un’ambiente che ora sta riscattando i suoi crediti, mentre alcuni Paesi “giocano a prendersi in giro” sottovalutando la gravità della situazione. L’ ho sempre detto che la vita è come un boomerang: tutto il male che fai prima o poi ti torna indietro. Ed è proprio in questi casi che il postulato “ama il prossimo tuo come te stesso” diviene un imperativo categorico.
Voglio trovare il lato positivo in questa situazione: è appagante vedere un Paese, il mio, che, nonostante sia stato derubato della propria dignità e presenti gravi problematiche, sia riuscito a reggersi sulle sue gambe, annullando ogni distanza al di là dei metri che ci separano, sia riuscito a ritrovare quell’unione, condivisione e solidarietà come solo noi italiani siamo capaci di fare e così, l’ inno di Mameli cantato in coro alla finestra, ha rappresentato una sorta di speranza.
Sapete, il prevalere del sentimento del panico in questi casi è forte, se non altro vedere il telegiornale e le notifiche circa i dati relativi alle morti e le tante storie delle persone che vivono il virus sulla propria pelle, per osmosi te lo provoca. Ma il senso di colpa è più forte, sì, lo è di più. Resto a casa nella possibilità di proteggere anche una sola persona o per alleggerire il lavoro anche di un unico medico, o leggere di un solo morto in meno. Non è facile essere tranquilli e dire di “stare bene” quando fuori dalla porta di casa i decessi continuano ad aumentare. È un senso di impotenza!
Il rischio è che quando questa battaglia finirà, un po’ come i sopravvissuti alla tragedia bellica e Primo Levi ci hanno insegnato, porteremo sulle spalle il peso del rammarico, del discutibile merito dell’essere sopravvissuti al posto di altre persone, di non avere preso seriamente la gravità della situazione. È una profonda psicosi collettiva, con la quale dobbiamo fare i conti. E non ci sarà nessun social, nessun video o nessun programma televisivo ad aiutarci questa volta. Ma una grande lezione e una grande cicatrice. Una cosa l’ho imparata però: a non dare nulla e nessuno per scontato. È proprio vero, la vita è così effimera, così labile, così fuggevole. Ma forse è proprio questa la sua crudele bellezza.
1 commento
Bellissima riflessione.