La verità è che non siete diversi voi. Sta succedendo a tutti in questi giorni, ma in rete molti preferiscono pubblicare solo cose belle e mostrarsi forti nonostante tutto. Prendiamo un bel respiro e scriviamolo: stare in casa fa schifo. Questo riposo forzato è doveroso e necessario per contenere il contagio, ma non fa per niente bene all’anima, oltre che al corpo. Non sta succedendo solo a voi, è tutto normale nella sua eccezionalità.
Al mattino è una rincorsa a fare tutto lo stesso per presentarci in ufficio puntuali, come se avessimo ancora un orario di lavoro da rispettare. L’ufficio per i più fortunati è una stanza dedicata al lavoro da casa, per alcuni altri il salotto o la cucina stessa. Stiamo pubblicando in rete talmente tante foto che ormai sappiamo tutto delle case degli altri: che brutte piastrelle questo, che libreria stracolma quell’altro. Bello quel divano, dove han trovato quelle tende?
Ci han concesso di lavorare in pantofole ma non hanno pensato alle famiglie che sarebbero state intorno a quel lavoro. Così nelle infinite videoconferenze per cercare di coordinare quanto c’è da fare compaiono sfondi imbarazzanti, parenti che chiedono cose, bambini che urlano, panni stesi, pentole e scorci di casa in disordine. Il caos al tempo del Coronavirus prende il sopravvento facilmente.
Soprattutto nessuno ha pensato ai bambini piccoli. I più grandi si collegano per seguire le videolezioni con i professori e rimangono impegnati in qualche modo, ma in età prescolare chi è lontano dall’asilo da oltre un mese inizia a dare chiari segni di cedimento. Per rispettare le scadenze lavorative ricorri troppo spesso ai cartoni in streaming e speri che tua figlia voglia fare disegni tutto il giorno o sfogliare da sola i libri che fino a ieri le leggevi. Rinunci un po’ a fare il genitore, a darle un’educazione, qualche stimolo, una direzione, ma ti piange il cuore vederla così e riuscire a concentrarti lo stesso diventa difficile. No, noi non stiamo impastando pizza, non giochiamo a fare le polpette, non sforniamo torte e non ci divertiamo con i castelli in salotto. Lavoriamo come o più di prima, mentre ci prendiamo cura in qualche modo dei nostri figli.
Le maestre dell’asilo ogni tanto inviano tramite Whatsapp dei video per raccontare fiabe, con la voce un po’ rotta dall’emozione e dalla situazione. Come state? Mi mancate, mandatemi un disegno ogni tanto. Marta avrà visto quei video decine di volte, imparando a memoria le battute, per la mancanza del suo equilibrio quotidiano precedente. Possiamo portare a spasso i cani ogni giorno ma i bambini rimangono confinati ai balconi o i giardini per i più fortunati. Se non bastano all’irruenza di un cane giocoso figuriamoci ad un bambino, con il quale devi pure giustificare a parole il motivo di questa quarantena prolungata.
Ogni mattina quando Marta si sveglia chiede speranzosa: c’è ancora il virus? All’inizio le parlavamo di un raffreddore, poi le maestre in video le hanno raccontato di questo Corona, che è atterrato sul pianeta terra e si è perso combinando tanti danni ma si spera trovi presto la strada per tornare a casa. Così ora sa tutta la verità, e quando starnutisce a volte dice che si è presa il virus.
Alcuni amici sono a casa a riposo normalmente retribuiti, alcuni altri in cassa integrazione, alcuni terribilmente disoccupati, e c’è chi continua a dover andare a lavorare con tutti i rischi del caso. In mezzo a tutto c’è la novità dello smart working, che in Italia si è sempre un po’ tenuto lontano con disprezzo. Eh, a casa poi il dipendente non lavora, perde tempo sui social e non lo posso controllare! Si dovrebbe in ogni caso lavorare per scadenze e progetti, con i ritmi e gli orari casuali che questo nuovo stile di vita impone, ma a leggere in giro sembra di capire che tanti lo intendano come un surrogato della vita da ufficio, scandita da orari precisi e inderogabili. Le call infinite per allinearsi su tutto dove i primi otto minuti sono per fare prove con il microfono e chiedere se si sente bene ad ogni partecipante che si aggiunge. Dodici strumenti di chat che cambiano ogni giorno per provarne di nuovi e sperare siano meglio di quelli prima ma no, non sono meglio. In generale fare una riunione dove uno parla e gli altri non possono interromperlo perché altrimenti non si capisce più niente non è più una riunione. Allora mandaci un vocale su Whatsapp e ti rispondiamo.
Chi non lavora cazzeggia sui social e dice la sua su ogni cosa, come prima, ma in modo più nervoso. Italiani popolo di navigatori, santi e allenatori di calcio, ma da un mese a questa parte epidemiologi e pneumologi. Chi non lavora e per di più è un creativo, propone invece cose a raffica: oggi ho fatto questo disegnetto, oggi vi canto una canzone, ho fatto questo cardellino all’uncinetto, oggi son uscito al balcone e ho imitato la Carrà. Ho fatto un flashmob tenendo accesa la pila del telefono così ci vedono dallo spazio, ho fatto un lungo applauso per i medici di Bergamo, sono in diretta Instagram con mio cugino per parlare di motorini, unitevi se vi interessa. Dopo i primi giorni di panico e sconforto dove ci siamo chiesti cosa fare per ammazzare il tempo, è arrivato puntuale il reflusso.
Con la noia e il troppo tempo libero son arrivati gli scazzi. Stare in casa forzatamente ore porta a litigare più spesso, per le piccole cose, con chi è a contatto con noi 24 ore su 24 festivi includi. Si alza la voce, ci si agita molto, bisogna scendere a patti più spesso e chiarire di continuo, riappacificarsi prima possibile. Gli spazi personali sono annullati, le ore d’aria sono diventati minuti per buttare il pattume in strada senza incontrare anima viva. In quei momenti ti accorgi che c’è un silenzio terrificante nell’aria. Un silenzio che avevi sentito soltanto in montagna, in qualche paesino sperduto dell’Abruzzo, ma almeno lì c’erano i cani ad abbaiare tra loro in lontananza.
Si esce con la scusa di fare la spesa, unico svago in un momento in cui è impossibile pensare di fare qualcos’altro senza sentirsi in colpa. Nonostante tutto è il momento più deprimente della settimana. Mettersi in fila dietro una serie di mascherine e guanti in silenzio, distanti, come in uno scenario di guerra.
Eppure non si sentono bombe nel cielo, non ci sono macerie, nella verde Ferrara spuntano i fiori e tutto sembra bello e in ordine. Ma non ci si riconosce più. Bardati come siamo per evitare ogni possibile contagio restiamo soli ad ascoltare il nostro respiro, ad apprezzare il nostro alito al mentolo, quando va bene. Chissà chi sta prendendo i pomodori laggiù, e chi è quella signora che chiede il prosciutto alzandosi la mascherina e vanificando ogni sicurezza?
L’incubo di pulire tutto e usare dispositivi di protezione ci ossessiona ogni giorno da un mese: il virus che resiste sulle superfici, i colpi di tosse, la suola delle scarpe, le mani lavate venti volte al giorno, rilavate un minuto dopo perché si è toccato per errore qualcosa. Il dubbio se questo o quello saranno infetti, se il ragazzo che consegna la verdura abbia o meno starnutito nel tragitto e se prendere la pizza da asporto sia un rischio inutile per noi e i portapizze o un modo per sostenere l’economia locale. Tra consegne a domicilio impossibili, supermercati online dove tutti pretendiamo di salvarci anche se oberati di richieste, gente che molla, che si reinventa, che ritarda le consegne dei beni non di prima necessità. Ho finito l’inchiostro della stampante per poter stampare l’autocertificazione con cui andare a comprare l’inchiostro della stampante, che faccio?
Poi la litania delle ore 18 e i numeri della Protezione Civile che scandiscono le nostre giornate con un macabro rituale: i morti saranno più o meno di ieri? Nelle chat di Whatsapp si improvvisano scommesse, si promettono birre quando tutto sarà finito e si incrociano dati e opinioni in modo frenetico. Impossibile esserci con la testa per davvero, inutile provare a fare qualcosa che non sia leggere, informarsi di continuo, parlare moltissimo per cercare di capire, elaborare, esorcizzare.
Piangiamo, anche. Da soli o in compagnia, ogni tanto qualcuno cede per forza di cose alle emozioni. Nel letto, ascoltando il telegiornale, leggendo una notizia o ricevendo un messaggio di un amico che conosce un amico che conosce un amico che è malato. Alti e bassi continui, emozioni al Luna Park. Qualcuno il virus l’ha preso davvero ed ha sofferto, qualcuno ne è uscito bene, qualcuno è morto da solo, salutando i parenti un’ultima volta con FaceTime e arrivederci. I racconti che arrivano dagli amici che lavorano in ospedale sono terrificanti: ci si consola così per ridare il giusto peso al problema dei piatti da lavare o delle lavatrici da fare. Si piange ancora, pensando a quando ci rivedremo tutti e sarà un momento talmente atteso a lungo da far scoppiare il cuore. Con i parenti e gli affetti più vicini soprattutto, ché le videochiamate sono un’alternativa scarsa ai rapporti umani e le storie a distanza si sa che non funzionano a lungo.
Speriamo di dimenticare tutto questo in fretta come in un nuovo dopoguerra e di metterci ancora a ballare fuori dai bar. Lontani dalle nostre case il più possibile, perché quel luogo dove tanto ci piaceva tornare ogni giorno, quando non eravamo costretti a starci forzatamente, per un bel po’ ci farà davvero schifo.
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