Dug è arrivato a casa nostra il 27 Febbraio scorso e con un tempismo sbalorditivo da tenero cucciolone peloso è diventato un prezioso lasciapassare per un quarto d’ora d’aria legalmente consentito. Quando si dice che adottare un cane ti migliora la vita. Usciamo quattro, cinque volte al giorno, rimaniamo ligi nei 200 metri da casa previsti e ormai di quei metri conosciamo ogni crepa, ogni filo d’erba che sbuca dal cemento, il più piccolo dislivello. Sono quindici minuti surreali, come tutto in questo periodo. Abito in una strada di Ferrara dove normalmente per sentire la TV devo chiudere le finestre da tanto traffico che scorre. Adesso, mentre cammino sento le unghie di Dug sull’asfalto, sento il rumore della sua urina scorrere su qualche angolo, sento il mio respiro nella sciarpa e sento i miei pensieri. Scappo dal caos di casa ma il chiasso nella mia testa continua. Sento il bisogno di ordinare le idee, di razionalizzarle perché arrivati a questo punto siamo stanchi e perdersi è un attimo.
Ci sono due categorie di pensieri che faccio più spesso: quelli che mi fanno incazzare e quelli che mi fanno piangere. Non è il migliore dei panorami mentali, ma il periodo è quello che è.
La prima cosa che mi fa incazzare è lo smart working o lavoro agile, la verità è che per lavorare da casa non devi essere né smart né agile, devi essere Houdini, nel senso che devi riuscire a sparire da tutti con mirabolanti giochi di prestigio per cercare di combinare qualcosa. Perché è vero che è una gran risorsa il telelavoro se vivi da soli, al massimo in due, ma basta un minorenne a gravitare nel tuo campo vitale che la situazione si complica di “ho fame, voglio disegnare, ho finitooo, cosa c’è a pranzo”, decisamente poco agile.
Aggiungiamoci poi un minore in età scolare che mi parte lo scazzo numero due: l’home schooling. Perché una volta che ho installato software, scaricato programmi, generato password, guardato in sù guardato in giù e dato un bacio a chi vuoi tu, cosa ho ottenuto? Ho crackato il PC della Lagarde, le ho modificato il discorso e le ho evitato di colpire e affondare l’economia italiana? Avrei potuto, invece no, sono entrata nell’aula virtuale di mio figlio. Perché quello di cui ha bisogno un bambino delle elementari non è capire cosa sta succedendo, non è essere rassicurato, non è tenere i contatti con maestre e compagni che da un giorno all’altro non ha più potuto vedere. Niente di tutto questo. A quanto pare un bambino di sette anni ha bisogno di geometria, grammatica, arte, matematica e ginnastica. Giuro, mi è arrivato un file con delle regole di ginnastica che neanche quelli iscritti a scienze motorie. Allora ho fatto quello che solo un’emergenza mondiale poteva indurmi a fare: ho scritto nella chat di classe. Ho preso il mio cellulare, che è il cimitero delle chat, silenziate e lasciate lì a macerare e ho scritto un messaggio invocando un po’ di empatia per questi bimbi. Risposta: ci sono delle direttive ministeriali, con due faccine che mi fanno l’occhiolino per dimostrarmi tutta l’empatia possibile. La chat può tornare a macerare.
Ma il pensiero che più mi fa perdere le staffe, che proprio se ci penso mi monta una rabbia cieca è rivolto a loro: i podisti. La categoria più odiata del momento: ci vuole del coraggio per andare a correre di questi tempi, magari non si rischia il linciaggio per una questione di distanze, ma una secchiata d’acqua sì. Poi un’amica mi chiama e mi dice “senti io abito in mezzo a campagna, vado a correre in orari assurdi, gli unici che incontro sono i fagiani, perché non posso?”. Perché no, cazzo! Perché anche se non mettono a rischio la salute pubblica ( in quel caso vanno bene le punizioni penali e le secchiate), i podisti rappresentano la nuova categoria da odiare e noi abbiamo bisogno di qualcuno con cui prendercela. Vuoi mettere una microscopica particella infettiva quando puoi insultare un coglione paonazzo in canottiera e leggings? In tempi normali la mia valvola di sfogo sono gli automobilisti, passando dalla rotonda di San Giorgio il mio repertorio si amplia sempre di nuovi e fantasiosi epiteti di cui vado particolarmente fiera. Adesso, chiusa in casa, trovo consolatorio potermi affacciare e sfogare tutta la mia arte oratoria verso il primo in tenuta sportiva che passa.
Oltre che aspettare come un condor il malcapitato atleta, un’altra cosa che mi porta alla finestra è la macchina del vicino. Qui si apre la categoria dei pensieri lacrimevoli. Il mio vicino di casa è un medico rianimatore a Cona, me lo hanno detto i servizi segreti del mio palazzo a.k.a. le signore del piano di sopra, perché in realtà è un tipo cortese ma piuttosto schivo e riservato. L’unica cosa che so di lui sono i suoi turni: se è di riposo mette la macchina davanti al garage se invece deve andare al lavoro la parcheggia in strada. Ultimamente non si vede spesso la sua macchina e quando c’è rimane in strada, precaria come mi immagino che sia il riposo del dottore, pronta a riportarlo in un posto che non è solo nei telegiornali.
Un’altra cosa che mi fa piangere sono le videochiamate a mia madre. Non ci vediamo da un mese e quando lo facciamo via Skype mi dà il bolletino medico, con particolare riguardo per i vip che sono stati contagiati, quelli guariti e quelli che non ce l’hanno fatta. Saluta i nipoti e gli racconta ogni sera una storia diversa che si è preparata. Poi passa alle raccomandazioni di stare attenti, di lavarci le mani, di uscire il meno possibile e di avvolgerci nella carta forno se proprio lo dobbiamo fare.Lei vorrebbe un po’ del casino che c’è intorno a me. Io vorrei un po’ del silenzio che c’è alle sue spalle, sulle sue spalle. Quando ci salutiamo delle volte, appena i bimbi si allontanano crollo e piango.
Poi c’è una cosa che mi fa piangere e arrabbiare insieme: sono gli arcobaleni alle finestre; stanno lì da un po’, ormai sono sdruciti e sbiaditi e non ci credono più neanche loro che andrà tutto bene. Perché non è andato tutto bene, ci sono i numeri e centinaia di famiglie a dircelo. Non ci saranno giochi di luci e di colori ad avvisarci della fine, ci saranno le crepe e i buchi che dovremmo trovare il modo di riempire. Non credo che quando arriverà quel giorno usciremo ad abbracciarci, insomma, siamo sempre schivi e diffidenti ferraresi e non è che solo perché abbiamo debellato una pandemia mortale ci faremo trascinare in melense effusioni. Magari ci concederemo qualche piccolo assembramento, senza troppi entusiasmi.
Allora potrò continuare ad incazzarmi, ma nel traffico dell’ora di punta e continuerò a piangere, ma per un bel film al cinema, come l’ultimo che ho visto, prima che il mondo si fermasse: Jojo Rabbit con il suo finale premonitore. Perché arriverà il giorno che anche noi usciremo e balleremo su David Bowie che ci dice che tutti possiamo essere eroi anche solo per un giorno.
1 commento
C***o se scrivi bene.
Dannatamente bene!