Atassia spinocerebellare, detta anche SCA. Una definizione difficile per una malattia terribile. Sclerosi multipla e Sla sono diventate negli ultimi anni, loro malgrado, patologie mainstream, ma purtroppo il fosco panorama delle malattie neurodegenerative è molto più ricco. Le atassie di tipo ereditario, quali la SCA1 e la SCA2, si manifestano, spesso senza avvisaglie, intorno ai 30 anni e colpiscono circa 3 persone su 100mila producendo difficoltà di deambulazione, disturbi del linguaggio, problemi cardiaci e morte entro i 20 anni dall’insorgenza.
A studiare soluzioni terapeutiche, soprattutto innovative, è un team di ricerca che lavora all’interno del laboratorio di Biochimica, Immunologia e Microbiologia dell’Università di Ferrara, che ha dato vita al primo progetto pilota di crowdfunding per la ricerca, inaugurato lo scorso settembre dal nostro Ateneo e che ha da poco superato gli 8000€ raccolti, ben oltre i 5000 che rappresentavano il primo obiettivo. Bastano poche battute con Peggy Marconi, Francesca Salvatori e Mariangela Pappadà, le animatrici del progetto, per stilare un catalogo minimo delle caratteristiche essenziali alla ricerca: intuizione, perseveranza, pazienza, coraggio, sfacciataggine.
«Siamo partite da zero – spiega la professoressa Marconi – perché quando la Fondazione ACAREF mi ha chiesto di prendere in carico questa ricerca, in seguito alla partenza per gli Stati Uniti della ricercatrice precedentemente incaricata, il progetto non era ancora iniziato. Questo da una parte può sembrare una cosa negativa, ma da un altro punto di vista si è rivelata una fortuna, perché ci ha stimolato a conoscere in modo approfondito la malattia e il difetto genetico che la causa, e permesso una totale libertà di azione nello sviluppare l’approccio terapeutico secondo noi migliore. Per dare vita all’intuizione ho immediatamente attivato un assegno di ricerca che è stato vinto da Francesca, e insieme siamo partite, senza vincoli, con un progetto innovativo e azzardato».
Francesca Salvatori, con le sue capacità e la sua energia, ha immesso carburante fondamentale nella ricerca: «La nostra intuizione è stata quella di orientare l’approccio terapeutico verso una tecnica nuova, che risolvesse il problema alla base della malattia, ovvero la correzione genetica, il cosiddetto gene editing. Ma per ottenere le informazioni che cercavamo avevamo bisogno di cellule di pazienti e reagenti specifici». E qui entrano in gioco coraggio e sfacciataggine: «Abbiamo chiesto l’aiuto dei pazienti che ci hanno donato un pezzettino di cute per permetterci di lavorare sulle loro cellule. Inoltre abbiamo contattato direttamente lo scienziato americano che per primo, all’Università del Minnesota, ha scoperto il difetto genetico alla base dell’atassia spinocerebellare di tipo 1 (SCA1). Ci sembrava una richiesta folle, noi piccolo gruppo di ricerca di un piccolo Ateneo italiano: invece ci ha risposto, ci ha fornito l’anticorpo per proseguire nella nostra sperimentazione, e ci ha iniettato l’entusiasmo per continuare». Ma di quello non c’era bisogno.
C’è, invece, costante bisogno di ottimizzare le condizioni sperimentali, attraverso un lavoro quotidiano in laboratorio che necessita di tante mani e tanta dedizione. «La nostra forza lavoro e il nostro stimolo – precisa Peggy – sono gli studenti di Biologia, Biotecnologia e CTF: nel periodo pre-laurea vengono da noi per imparare le tecniche di laboratorio. Sono bravi, ci danno una grossa mano, e noi cerchiamo di ripagarli dando loro competenze sofisticate. Alcuni sono davvero motivati».
Mariangela Pappadà è un esempio di ex-studenti dotati e pieni di entusiasmo. Un titolo di laurea brillantemente ottenuto, un lavoro sicuro in farmacia. Ma il richiamo del laboratorio è più forte della tranquillità economica. Ed eccola qui, a ‘curare’ con amore le sue cellule: «Ogni mattina, dopo il caffè, le osserviamo per capire se sono pronte per essere manipolate. Trattiamo le cellule dei nostri pazienti con gli approcci terapeutici da noi sviluppati e verifichiamo, a livello molecolare, se siamo riuscite a correggere la mutazione. Andiamo a valutare se, con il silenziamento genico, abbiamo eliminato o ridotto i livelli di proteina tossica, che è la causa della degenerazione cellulare, tenendo presente che le cellule di ogni paziente reagiscono diversamente al trattamento. La variabilità umana è la chiave ed è anche la nostra ricchezza, perché ci fornisce indicazioni importantissime che ci permettono di migliorare le nostre molecole biologiche e anche le strategie di veicolazione alla base della nostra terapia. Insomma, un lavoro certosino, che richiede tanti controlli e tanta organizzazione».
Mariangela sta anche seguendo un corso sulle tecniche di coltura cellulare in tre dimensioni (3D) e organoidi. Un altro passo fondamentale, sottolinea Peggy: «È la linea del futuro: le potenzialità di sviluppo degli organoidi sono enormi per la nostra ricerca, per la possibilità di studiare in laboratorio malattie e terapie personalizzate, verificando l’efficacia del nostro gene editing e riducendo così la sperimentazione animale».
Peggy, Francesca, Mariangela e i loro collaboratori sentono l’entusiasmo e il peso della loro ricerca. Francesca è chiarissima: «Combattiamo ogni giorno l’ansia del tempo: nelle nostre indagini coinvolgiamo i pazienti, che ci chiedono costanti aggiornamenti sull’avanzamento della cura per la loro malattia. Lo stato attuale dell’arte è molto incoraggiante per la SCA di tipo 1, sulla quale stiamo continuando con successo il percorso di indagine sulle cellule dei pazienti; crediamo che la tecnica possa funzionare anche per la SCA di tipo 2, ma dobbiamo fare analisi che ce lo confermino. Queste analisi necessitano di tempo e budget, quindi ci armiamo di pazienza e scriviamo costantemente progetti per avere finanziamenti».
Intanto è arrivato il riconoscimento del valore di questo studio e il sostegno di Unife, che l’ha scelto come primo progetto del crowdfunding per la ricerca. Una esperienza nuova, che sta dando risultati sul piano numerico, e sorprendenti sollecitazioni: la ricerca ha già superato il primo obiettivo di finanziamento, e da poco perfino gli 8.000 euro del secondo step. «Bella l’attenzione che si è creata attorno al nostro lavoro, ma che imbarazzo per le interviste di queste settimane», afferma arrossendo Mariangela. Francesca, la più esuberante del gruppo, coglie l’aspetto più profondamente innovativo del ricorso al crowdfunding per finanziare una ricerca di frontiera: «Sono sincera, mi sarei attesa una risposta più sostanziosa da parte della comunità accademica, ma è senza dubbio una esperienza emozionante e istruttiva. Parlare a un pubblico di non addetti ai lavori mi ha costretto a cambiare il mio registro, per rendere più chiaro possibile ciò che facciamo; siamo uscite dal laboratorio, abbiamo dialogato con la società, abbiamo portato all’attenzione della collettività il dramma dei malati di atassia. Tutto questo è impagabile. Ma voi continuate a donare!».
INFO:
Crowdfunding Unife: https://crowdfunding.unifeel.it/