Il campanello suona e le luci di sala calano. Il pubblico si affretta a prendere posto. Al mio fianco si siedono due signori che conversano tra loro in tedesco. «Endlich Musik!» esclama uno dei due, finalmente la musica! Li guardo attentamente: alla mia destra prende posto un uomo robusto con scintillanti occhi azzurri e il volto ricoperto da una lunga barba grigia; alla mia sinistra si siede un distinto signore. Sebbene quest’ultimo sia più elegante e curato del primo, entrambi indossano abiti decisamente bizzarri, simili a quelli che si vedono nelle foto di fine Ottocento.
Sussulto! Sfoglio il libretto della stagione concertistica di Ferrara Musica 2019/2020 alla ricerca della presentazione del concerto di questa sera. Confronto attentamente le foto riportate e non ho più dubbi: mi trovo al cospetto di Johannes Brahms e del suo amico italiano Leone Sinigaglia.
Mille sono le domande che vorrei fare ai due grandi compositori ma sono dissuaso dalla buona educazione che impone il silenzio in sala. I giovani musicisti dell’Archos Quartet entrano in scena. Il pubblico applaude e ha inizio il concerto. Primo brano in programma il Quartetto in la minore op. 51 n.2. di Brahms. Una esecuzione eccellente che evidenzia l’indiscutibile talento dei giovani interpreti, già avviati sulla strada di una carriera di grande successo. Con il Finale. Allegro non assai si conclude il quartetto e con esso la prima parte dello spettacolo. Tra gli applausi del pubblico le luci si riaccendono. È il momento giusto per poter parlare con i due compositori. Nonostante il suo carattere riflessivo, si dice che Brahms fosse di modi semplici e gioviali. Decido dunque di rivolgermi prima a lui.
«Maestro mi scusi, posso farle qualche domanda?».
«Gradirei fumare un sigaro, ma posso pazientare».
«Quello che abbiamo appena ascoltato è uno dei pochi quartetti a noi pervenuti della sua produzione, giusto?»
«Ebbene sì, ho sempre avuto un timore reverenziale nei confronti della più aulica delle formazioni del classicismo viennese. Come dissi una volta all’editore Simrock: “Mozart, sia detto per inciso, si sottopose ad uno sforzo tutto particolare per comporre sei bei quartetti, per cui noi dobbiamo darci da fare un po’ per scriverne uno o due almeno sopportabili”. E così feci dando alle stampe soltanto i Quartetti n. 1 e n. 2 dell’opera 51 e il Quartetto n. 3 op. 67, e regalando alle fiamme tutti gli altri esperimenti che non ritenni mai all’altezza dei miei grandi maestri.»
«Certamente è complessa la composizione dei quartetti, ma altrettanto complesso è l’ascolto e la comprensione!»
«Sono veramente rare le persone in grado di comprendere la musica in termini puramente musicali. Pensi che in occasione dell’esecuzione del Quartetto op. 51 n. 1, questo fu accusata dalla critica (Signale für die musikalische Welt, non faccio nomi!)» sussurra «di essere troppo seria per essere apprezzata ad un primo ascolto e di suscitare “un’impressione men che gradevole” se suonata accanto a opere di Haydn e Beethoven. Certamente il mio linguaggio non è “limpido” come quello del primo classicismo: sono partito da basi classiche per costruire forme e contenuti moderni non immediatamente fruibili. Credo però di meritare una possibilità dal pubblico, anche dei giovani di questa nuova epoca che, a quanto pare, mi conoscono esclusivamente per quel “motivetto” tratto dalla mia Danza Ungherese n. 5. A proposito, mentre mi stavo recando a teatro, ho sentito quel tema uscir fuori da una scatoletta luminosa che un uomo teneva in mano…»
«Intende dire uno smartphone! Si certo si tratta di una suoneria… Maestro è una questione complicata che le spiegherò a fine concerto se ci sarà tempo. Tornando al quartetto d’archi, secondo lei perché è importante per la nostra cultura musicale? E soprattutto, perché oggi dovremmo venire a teatro e approcciarci a questo ascolto impegnativo?»
«Ti rammento che il quartetto costituisce la forma ottocentesca più elevata della musica da camera, ovvero di quella musica inizialmente concepita per essere eseguita da una piccola formazione all’interno di un luogo privato. Per me, come credo per Leone, questo rappresenta un banco di prova, un collegamento con il classicismo viennese dei nostri maestri dai quali traiamo linfa e ispirazione per lo sviluppo di nuove idee».
«Se posso completare il pensiero del Maestro,» interviene Leone Sinigaglia «credo che il quartetto d’archi sia il genere più complesso e raffinato, la forma più compiuta della musica strumentale. Abbiamo infatti quattro strumenti (due violini, viola e violoncello) che interagiscono alla pari e sta alla maestria del compositore riuscire a distribuire il materiale tematico e il suo sviluppo tra di essi valorizzandone le peculiarità di ciascuno. Come si diceva, grandi maestri del quartetto sono stati: Haydn, Mozart, Beethoven e il mio caro amico Johannes. Proprio a lui questa sera avrò modo di rendere omaggio con le 15 Variazioni su un tema di Brahms per Quartetto d’archi op. 22, ispirato al suo Lied per coro misto Dein Herzlein mild, che a breve avremo modo di ascoltare». Dice lanciando un composto sorriso all’amico.
«Maestro Sinigaglia sfortunatamente la sua opera oggi è poco nota al grande pubblico», osservo imbarazzato.
«Non si preoccupi, ai miei tempi, tra ‘800 e ‘900, ero conosciuto in tutto il mondo. Pensi che la mia Ouverture “Le baruffe chiozzotte” fu eseguito in occasione del concerto di addio di Gustav Mahler tenutosi a New York nel febbraio del 1911! Sono stato fra i primi compositori italiani a dedicarsi alla “musica assoluta”, ovvero alla musica strumentale il cui senso è da ricercare unicamente in se stessa, fuori da ogni intento descrittivo o narrativo. Parafrasando il grande critico Eduard Hanslick: musica che non ha altro contenuto che i suoni e il loro artistico collegamento. Nella mia epoca questa concezione estetica era poco condivisa in Italia, patria dell’opera lirica. Per soddisfare questa mia propensione controcorrente abbandonai il mio bel Piemonte e le sue montagne per le città della Mitteleuropa. Furono anni di duro studio e lavoro ma ebbi modo di diventare amico di Brahms e allievo di Dvořák».
Con la coda dell’occhio noto Brahms estrarre dal taschino della sua giacca un quadernino, probabilmente il suo famoso Schatzkastlein des jungen Kreislers, ovvero “Lo scrigno del giovane Kreisler”, nel quale annotava tutte le citazioni tratte dalle sue numerosissime letture.
«Quale sia il reale valore sociale ed estetico del quartetto, di cui mi chiedevi prima», interviene Brahms, «è stato chiarito da un tuo connazionale, il compositore Luciano Berio, del quale proprio oggi, sfogliando un libro in una libreria del centro, ho annotato queste parole: “Dopo quasi 250 anni [il quartetto] si presenta a noi come uno “strumento” la cui dialettica tra individualità ed umanità, fra autonomia e omogeneità, sembra porsi come paradigma di una società ideale”. Quindi un dialogo tra quattro strumenti che non hanno una gerarchia di importanza ma dialogano tra di loro, ciascuno con la propria voce.
Le luci calano e il quartetto rientra in scena. Nella penombra Brahms mi sussurra: «Carissimo, nella mia società sono stato un ribelle: ho guardato al passato, ai miei grandi maestri primi tra tutti Bach, Beethoven, Schubert, Schumann, cercando di far comprendere la bellezza ad una società borghese consumistica che già non era più in grado di riconoscere il valore dell’arte»
Con un cenno ringrazio Brahms. Mi volto verso Leone, ma è già assorto nello spettacolo: scruta il palcoscenico con lo stesso sguardo con il quale da ragazzo osservava dall’alto delle sue scalate alpine l’aprirsi delle vallate piemontesi.
Così inizia la seconda ed ultima parte del concerto: le Variazioni su un tema di Brahms op.22 seguite dal Quartetto op. 27 in re maggiore di Leone Sinigaglia.