“Climate change is real”, pare essere questa la notizia del secolo, una frase che la giornalista nigeriana Augustina Armstrong-Ogbonna si sente di dover ribadire davanti alla folta platea radunatasi nella sala uno del cinema Apollo dove ha inaugurato il Festival di internazionale 2019 che quest’anno ritrovo colmo più che mai di appuntamenti a tema ambientale.
Armstrong-Ogbonna, dopo aver ricevuto il premio Anna Politkovskaja per le inchieste ambientali che l’hanno portata a dover abbandonare il proprio paese in conseguenza alle minacce di morte ricevute, le testimonianze per le quali ha rischiato la vita arrivano come schiaffi di chi ha visto con i propri occhi gli effetti tangibili di quello stravolgimento climatico che noi osserviamo dal miope oblò della parte comoda del pianeta e che, seppur tra i primi responsabili, tendiamo ancora a sottostimare. “Le persone sono costrette a spostarsi, non perché lo vogliano ma perché queste condizioni non gli permettono di vivere” continua la giornalista “per esempio in Botswana pregano perché piova, vanno in chiesa e pregano per questo, come puoi vivere senza pioggia?”.
Pioggia, aria, terra, tutte cose che diamo per scontato solo per il fatto di averle ancora relativamente fruibili, pur avendo perso già moltissimo non abbiamo ancora la sufficiente motivazione per mettere insieme tutti i pezzi del quadro.
Con il suo prezioso lavoro Augustina ha messo in pericolo la propria vita giorno dopo giorno sacrificando la possibilità di vivere nella sua terra per poter comunicare al mondo quanto fosse minacciata dagli sconvolgimenti climatici che la stanno martoriando, proprio chi ha avuto il ruolo meno incisivo è chi attualmente sta pagando per primo il conto più salato di un problema che non guarda in faccia a nessun confine di frontiera, a nessun tipo di acqua territoriale.
Qualche pedalata in centro mi dà l’opportunità di passare dall’Africa all’Amazzonia Brasiliana trovando continue conferme di quanto appena affermato. Tommaso Protti, premio Carmignac di fotogiornalismo 2019, presenta la sua proiezione di foto all’evento “Amazzonia in fiamme”, un lavoro che attraverso le immagini accompagna lo spettatore in una Amazzonia urbana e metropolitana che stravolge completamente l’immaginario comune scavando alla radice delle cause che hanno portato alla distruzione di milioni di ettari di foresta durante il corso dell’estate appena trascorsa, cause che svelano un assetto socio economico totalmente sordo alle priorità ambientali che il cosiddetto polmone verde del pianeta necessita.
“L’Amazzonia oggi è aperta nuovamente al commercio” afferma Protti raccontando di come sia stia tornando ad una idea di foresta come luogo da sfruttare e colonizzare regredendo alla visione territoriale delle dittature degli anni sessanta e settanta quando questi territori sconfinati erano visti semplicemente come mera fonte di reddito materiale creando una sovrapposizione tra crisi ambientale e crisi sociale: “Non possiamo fare dei discorsi sulla preservazione senza tener conto del tessuto sociale di questa regione”.
Il problema della terra rimane il tema principale dal quale partire per spiegare la fame di spazio che si tenta di saziare rubando alla foresta. i Fazendeiros, propietari terrieri dedicati all’attività agricola e di allevamento, creano dei veri e propri gruppi di potere definiti “Ruralistas”, pochi soggetti posseggono la maggior parte dell’intero territorio brasiliano creando la più grande concentrazione fondiaria al mondo ed imponendo una visione totalmente utilitaristica della terra che porta a pratiche estreme come l’istituzione del “dia do fogo” (10 agosto), molti gruppi di fazendeiros appiccano incendi in modo simultaneo e coordinato per sostenere le attuali politiche di sviluppo dell’Amazzonia.
A partire dalla scelta cromatica in bianco e nero, le immagini che Protti riporta con sé stravolgono le aspettative visive e narrative dello spettatore presentando una realtà che si discosta dal disastro dei soli incendi ma che rientra a pieno titolo nell’intreccio sociale e ambientale che affligge la regione. Dalla disastrosa costruzione della diga di Belo Monte all’estrazione d’oro illegale dei “garimpeiros”, scene di cattura dei taglialegna illegali intrecciate ad immagini di degrado delle strade insanguinate dagli omicidi nei gruppi armati dei narcotrafficanti delle favelas amazzoniche.
Dalla proiezione risulta chiaro come in questa parte di mondo le conseguenze dei cambiamenti climatici siano arrivati ad essere, allo stesso tempo, causa ed effetto della distruzione che continua a divorare come un cancro il cosiddetto polmone verde del pianeta.
A riavvicinare le problematiche ambientali alla realtà che per forza di cose percepiamo come più vicina e reale ci pensa l’incontro con il climatologo Luca Mercalli, complice la giornata di sole il cortile del castello straripa di gente e i posti a sedere disponibili sono finiti già da tempo, l’unica soluzione e godersi lo spettacolo in piedi o sedersi per terra rinunciando a qualche porzione di visuale. “Investire sul futuro” è il titolo dell’incontro e vede il climatologo parlare a braccio per quasi un’ora passeggiando e gesticolando con fervore sul palco montato per gli incontri. Mercalli apre ricordando al pubblico da quanto tempo sia iniziata la discussione sugli effetti dei cambiamenti climatici, la prima conferenza che porterà alla firma della convenzione quadro delle nazioni unite sul cambiamento climatico risale al 1992 quando volendo i tempi e i dati scientifici erano già più che maturi. Una Greta c’era anche all’epoca, era canadese e si chiamava Severn Suzuki, zittì il mondo durante i suoi sei minuti di discorso e se avesse avuto gli strumenti che la rete offre al giorno d’oggi forse ora ci ritroveremmo a raccontare un’altra storia. Sono passati quasi trent’anni da quel giorno, nessuno ha ascoltato quelle parole e ora ci ritroviamo sulla traiettoria climatica che ci sta sparando dritti verso l’aumento di temperatura di 5 gradi centigradi di media (già a 2 gradi le conseguenze sarebbero catastrofiche) e all’innalzamento di più di un metro e venti dei mari e degli oceani di tutto il mondo.
“Per cercare di tamponare queste conseguenze lo spazio di manovra è ormai molto ristretto e possiamo solo limitare i danni come quando un fumatore incallito smette di fumare, gli effetti positivi saranno visibili in un secondo momento e i danni ormai presenti ce li si porta dietro”. Mercalli continua con una esortazione ad agire partendo dalle piccole azioni di tutti i giorni che ormai sinceramente avrei dato per scontato ma che evidentemente non fa mai male ripetere, certo, rimane di fondamentale importanza l’azione del singolo ma riducendo il tutto a delle scorrette abitudini si rischia di essere miopi di fronte alle lobby economiche che stanno ancora guadagnando montagne di soldi dai mercati che stanno distruggendo il sistema terra.
“Il sistema della crescita infinita in un sistema finito non può andare avanti” continua il climatologo “200 anni di economia capitalistica basata sulla crescita continua non sono di certo modificabili in una notte ma la finanza e la politica devono essere pronte a sostenere anche delle scelte impopolari, questa economia uccide, uccide l’ambiente e uccide noi”. L’esortazione di Mercalli a cambiare tipo di economia passa attraverso al possibile affiancamento e all’adesione a dei modelli economici sostitutivi già esistenti seppur ancora acerbi, la rapidità dei meccanismi finanziari rispetto a quelli politici può permetterci di prendere una corretta direzione investendo in ambiti che non comprendano il supporto ai principali settori responsabili dei cambiamenti climatici. Persino le enormi risorse delle spese militari rientrano nel discorso del climatologo “Non prendiamoci in giro, con quello che spendiamo a livello mondiale in spese militari in un singolo anno ricopriremmo di pannelli solari il pianeta”.
La convinzione che siano meccanismi difficilissimi da scardinare si fa sempre più concreta dopo aver assistito alla proiezione del documentario “Soyalism” di Stefano Liberti ed Enrico Parenti presenti alla proiezione nella sala due del cinema apollo e protagonisti del dibattito che ne è scaturito in successione. La visione dei due registi racconta di un mondo divorato dalla soia necessaria per alimentare i miliardi di capi di maiale che ogni anno vengono consumati in tutto il mondo, un mercato globalizzato dove si stanno distruggendo interi ecosistemi del Brasile (ed ecco che ritorna lo sfruttamento della foresta Amazzonica) e del Mozambico sfruttati come sconfinati silos di soia necessari per dare da mangiare ad animali allevati nei mastodontici concentramenti cinesi e statunitensi distanti migliaia e migliaia di chilometri. Si torna alle abitudini di consumo, si torna ad una finanza malata dove il basso costo del prodotto è sostenuto interamente dal sacrificio di un ambiente ormai al limite delle sue capacità produttive, una visione miope che non guarda mai all’impatto globale ma solo all’orticello, o meglio, alla coltura intensiva di casa propria.
E in Italia? La domanda arriva inevitabile dal pubblico, “In Italia il meccanismo è esattamente lo stesso – risponde Liberti – la scala è differente ma il procedimento non cambia, pensate anche solo al nostro rinomato prosciutto di Parma o San Daniele, la provenienza della carne da allevamenti intensivi è comunque sempre la stessa con la differenza che sul nostro territorio gli allevamenti sono concentrati in un’area più ristretta, proprio la pianura Padana.
“Alleviamo tredici milioni di maiali all’anno su sessanta milioni di persone, il rapporto con i settecento milioni di animali allevati annualmente dalla Cina per una popolazione di un miliardo e mezzo di persone non è poi così lontana, il Patanegra spagnolo è allevato all’aperto ed alimentato esclusivamente a ghiande ma costa cento euro al chilo e non venticinque come il prosciutto di Parma, è sostanzialmente questione di scelte economiche e politiche”.
La crisi è globale e racchiude talmente tanti ambiti da non riuscire più a distinguerne un inizio ed una fine, le nuove generazioni stanno provando a reagire e a trovarne un punto di attacco concreto e per questo coronano la chiusura del festival all’incontro finale al Teatro comunale di Ferrara dal titolo “Noi ci saremo”. Ospiti all’incontro due rappresentanti dei principali movimenti giovanili mondiali che stanno smuovendo le coscienze mondiali: Daze Aghaji per Extincion rebellion e Alexander Fiorentini per Friday for future. Come ribadiscono ormai da mesi e mesi, entrambi gli interventi sono principalmente volti a coinvolgere e spingere i giovani che non l’avessero ancora fatto a prendere l’iniziativa per quanto piccola possa essere.
Volendo definire il messaggio degli incontri del festival di internazionale 2019 dedicati all’ambiente, torno a rafforzare la mia idea per la quale quello a cui stiamo assistendo sia da ricercare in un concatenamento circolare di responsabilità rimpallate tra chi fornisce i beni di consumo, che stanno stravolgendo il clima mondiale e chi quei beni li consuma, permettendone la continuità produttiva. La vera difficoltà risolutiva sta proprio nel fatto che ci troviamo di fronte ad una guerra i cui eserciti fanno parte della stessa fazione e solo quando una delle due compagini farà il primo significativo e concreto passo di cambiamento si riuscirà a spezzare la corda stretta intorno al collo degli equilibri climatici mondiali.