Imposteremo questa intervista come fosse un dibattito.
Un confronto interiore, pur avendo come interlocutore (reale) Francesco Bettini, direttore artistico del Jazz Club di Ferrara, che inaugura venerdì 4 ottobre la sua programmazione, come di consueto tra le migliori a livello nazionale e non solo.
L’idea è quella di seguire quel delizioso contrasto interiore tra la propria voce e quella della propria coscienza, che mette in scena Jonathan Safran Foer nel recente (e consigliato) “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” (Edizioni Guanda). Un lungo dibattito sul perché vi sia una così forte tendenza a non seguire la propria morale: Foer si definisce vegano da decenni e attivista impegnato per l’ambiente, eppure c’è sempre qualche occasione durante ogni anno in cui finisce per mangiare un hamburger, e ancora oggi coltiva il desiderio di alimentarsi con carne animale. Ferendo la propria stessa moralità, senza capire il motivo di queste debolezze. Una lunga e sofferta invettiva, che prendiamo in prestito per raccontarci perché siamo tutti affascinati dal Jazz, musica considerata di qualità ed eleganza, eppure finiamo per ascoltarlo poco, considerandolo spesso ostile e complicato da capire, in fondo distante.
Quindi: perché il Jazz è considerato da quasi tutti musica colta e bella, eppure è seguito soltanto da una nicchia di persone?
Eppure, il Jazz è fondamentalmente musica popolare, per cui è un controsenso. Nasce, se vogliamo raccontarne la storia, dalle ritmiche degli immigrati africani trapiantati negli Stati Uniti e divenuti schiavi. È musica piena di ritmo, suonata nei locali frequentati dai lavoratori più umili: la batteria stessa nasce nel jazz come unione di tanti piccoli strumenti, aggiunti uno ad uno. Poi ha avuto una evoluzione storica importante, è stato in qualche modo assimilato nella cultura: se pensiamo al bebop era un genere completamente sconcertante all’epoca, per il suono e per la messa in scena, ad oggi invece ci ricorda con molta semplicità il jazz, come se fosse già un patrimonio assimilato.
Ma in realtà, pur non essendo magari oggetto di dibattito, anche oggi il jazz entra e contamina molteplici altre forme musicali: anche recentemente sono usciti dischi che uniscono jazz e trap, tanto per dire. Anche perché in fondo, esistono infinite classificazioni di generi e sottogeneri che vogliono categorizzare il jazz, ma è un discorso piuttosto sterile ed inutile, almeno per me.
Non si può però negare che sia un genere poco attrattivo per i giovani, che difficilmente si avvicinano al Jazz Club.
Si e no, è vero solo in parte. Ogni concerto ha pubblici diversi: vi sono serate dove si suona e si canta fondamentalmente un repertorio classico e questo porta, è vero, un pubblico più avanti con gli anni.
C’è però in contrapposizione tutta la scena dei musicisti, ad esempio, con un forte senso di comunità, che segue i concerti; vi sono persone che hanno scelto di trasferire la propria residenza e di mettere su famiglia a Ferrara per rimanere vicini alle possibilità di fruizione e di esibizione del Jazz club.
E ci sono appuntamenti, come quello del lunedì, dove il prezzo dell’ingresso è basso e la serata è impostata con dj set (spesso basati sul ritmo) ed esibizioni o jam session che portano lo spettatore casuale a stupirsi e lasciarsi coinvolgere dall’atmosfera.
Questo ci porta ad avere un pubblico in realtà più trasversale di quello che si può immaginare: sui quaranta anni di media, sicuramente non oltre.
Un punto a favore è sicuramente il luogo e quell’idea di rapporto tra artista e pubblico propria del jazz: ho l’idea che sia un genere che si vive dal vivo, ma si ascolta poco su disco.
In parte è vero. È altrettanto vero, però, che anche quella che è la musica pop (o rock) da grande pubblico ha una dimensione dal vivo sempre più preponderante, con grandi show allestiti per folle di decine di migliaia di persone.
Con una differenza però: quel pubblico ricerca, spesso, una magnificenza, uno spettacolo, un’esibizione simile e se proprio più potente rispetto a quella del disco.
Quello che accade in un tour jazz è invece differente: ovviamente la base musicale è definita, ma vi è molto più spazio per l’improvvisazione, la variazione, la libertà musicale.
Il musicista jazz fondamentalmente cerca di catturare tutte quelle che sono le emozioni e le sensazioni del mondo, di quell’istante e di quell’ambiente, per trasferirle in musica.
Ed ogni variazione influenza il lavoro dei compagni di palco, creando comunque un’esperienza che è per una parte rilevante diversa da quella della sera prima, pur con le stesse persone a suonare. E questo posso dirlo, avendo anche lavorato come agente in diversi tour lunghi: spesso il live che si è creato e suonato qui al Torrione aveva un’atmosfera migliore, si è venuta a creare quella magia che ha reso la serata una delle date più interessanti del tour.
Insisto per l’ultima volta. Nel 2014 esce un film che racconta il jazz (“Whiplash”) nel modo più crudele: la dedizione al perfezionismo, il sogno americano del trionfo oltre ogni debolezza, l’apoteosi della tecnica. Vincerà tre Oscar. L’anno precedente un autore (quasi) da best-seller come Haruki Murakami pubblica “Ritratti in Jazz”, riversando tutto il suo amore per il genere in una raccolta illustrata. Eppure al grande pubblico poco arriva: ci sono alcuni grandi classici (Miles Davis) e tutta quell’estetica intellettuale, complessa, da musica raffinata ed elegante da tenere in sottofondo o per una cena romantica. Dove sta l’errore, se ci stiamo raccontando che l’esperienza dal vivo del Jazz è tra le più interessanti e stimolanti?
C’è un fondo di verità. Che l’ascoltatore di jazz sia solitamente una persona musicalmente più colta della media è vero. È necessaria una certa apertura e predisposizione mentale per capire e lasciarsi sedurre dal flusso musicale, fino ad entrarci dentro. Bisogna essere pronti ad essere lì, all’ascolto, con l’attitudine a lasciarsi coinvolgere.
Eppure quello che io penso spesso è: perché non provare a trovare qualcosa di nuovo? Perché la maggior parte del pubblico, onestamente, ricerca nella musica dal vivo quelli che sono gli artisti che già conosce. Io invece invito alla sperimentazione dello sconosciuto: in fondo bastano pochi minuti ed uno smartphone per approcciare un minimo l’artista o la band e poi lasciarsi affascinare, o meno, dall’esibizione dal vivo. Non c’è barriera o preclusione, se non quella che imponiamo noi.
Guardando alla programmazione dei primi mesi, consigliamo tre concerti a tre tipologie di persone: un giovane ventenne, un fanatico appassionato di jazz, una famiglia di medi gusti popolari. Se volessero provare una serata al Jazz Club, quali sarebbero le occasioni migliori?
Beh, partiamo dal fondo: sabato 26 ottobre, con il tributo a Shirley Horn di Dena Derose e The Erj Orchestra c’è sicuramente l’occasione di conoscere un repertorio classico e con un linguaggio facile ed affascinante per chiunque.
Per una persona già amante del jazz e con la mente aperta alle sperimentazioni penso alla data del 12 Ottobre, con Mary Halvorson e il progetto Code Girl, piena di contaminazioni musicali e tra le novità più interessanti della scena di New York.
Infine per il ragazzo più giovane, con il desiderio magari di ritmi intriganti, consiglio il 7 dicembre Cris Potter con il suo progetto Circuits: una serata sicuramente piena di groove e intensità in grado di far coinvolgere e perché no, ballare.
“In genere, il jazz è sempre stato simile al tipo d’uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia.“
Duke Ellington direttore d’orchestra, pianista e compositore statunitense (1899 -1974)
MORE INFO:
Sito Ufficiale Jazz Club Ferrara
2 commenti