“Cosa significa fare ricerca? Indurre l’occhio a vedere più di quello che sa. E cosa serve per fare ricerca? Una notevole predisposizione alla sconfitta”. Spiazzanti e profonde le osservazioni di Paolo Zamboni, che abbiamo incontrato per avere un punto di vista non convenzionale sulle dinamiche della ricerca di frontiera sviluppata all’interno dell’Università di Ferrara.
La voce è autorevole se ce n’è una. Zamboni, ferrarese classe 1957, è oggi riconosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sul ritorno venoso cerebrale in relazione alla sclerosi multipla e ad altre malattie neurodegenerative. Una teoria medica, che ha ricevuto l’attenzione dei principali centri di ricerca internazionali, pensata e sviluppata all’interno del Dipartimento di Morfologia, Chirurgia e medicina sperimentale dell’Università di Ferrara. Un vero scienziato; parola ormai in disuso, ma che racconta alla perfezione il profilo del nostro interlocutore. Un cicerone d’eccezione per comprendere il percorso, le fatiche quotidiane e le grandi soddisfazioni di tanti giovani ricercatori d’Ateneo.
Una precisazione iniziale. In cosa consiste la ricerca in ambito medico?
Semplificando, possiamo dire che si divide in due grandi aree. L’ambito preclinico, nel quale si prova a far qualcosa in laboratorio potenzialmente trasferibile in una cura, e l’ambito della sperimentazione clinica, nel quale si lavora sui pazienti per individuare concreti percorsi diagnostici e terapeutici, spesso sfruttando un razionale precedentemente costruito dai ricercatori preclinici.
Come si decide di fare ricerca?
Credo sia il combinato disposto tra il bisogno di soddisfazione personale e la lacerazione interiore che ti provoca il dover dire a un paziente che per la sua malattia non ci sono speranze.
Quando è scattata la scintilla per Paolo Zamboni?
Lo ricordo benissimo. Ero ancora studente di medicina, e una sera arriva in ospedale una ragazza in coma epatico. I professori Donini e Bresadola, con una coraggiosa intuizione, utilizzano il fegato di un maiale per ripulire il sangue intossicato della ragazza, che di lì a poco si riprende. In quel momento ho avvertito una vibrazione interiore. Perché non c’era solo l’adrenalina di aver salvato una vita, ho capito che questa straordinaria vicenda non aveva niente di miracoloso o casuale, ma aveva una lunga storia di ricerca alle spalle. Quei medici provenivano dal centro di Genova che per primo in Italia aveva realizzato il rene artificiale; avevano trasferito un patrimonio di conoscenze apprese dal loro maestro per salvare quella giovane vita, utilizzando un fegato animale come fosse un perfetto organo artificiale.
Certo, non tutti sono predisposti alla ricerca…
Fare ricerca è prima di tutto divertente, ma anche faticoso e non è ammesso avere paura degli schiaffoni. Perché ogni risultato è il frutto di tantissime sconfitte: spessissimo ci si trova in un vicolo cieco, ed è necessario non impantanarsi ma disporre di una creatività che rilanci la ricerca in una direzione diversa. Occorre anche pazienza. Essere studenti di talento non basta, bisogna soprattutto attivare sempre il processo critico e partire dalla negazione della propria idea.
Poi bisogna anche essere supportati dalle istituzioni…
Quello certamente, ma avviene già, e lo dimostra ad esempio anche l’attenzione data a progetti in ambito biomedico per le campagne di crowdfunding dell’Università di Ferrara. Esistono in realtà due grandi freni alla ricerca, uno esogeno e uno endogeno. Da una parte spesso si è rallentati fino allo sfinimento da pratiche burocratiche ormai divenute eccessive. Faccio un esempio che guarda indietro. Oggi noi sappiamo che l’embolia polmonare origina da trombi sviluppatisi nelle vene periferiche. Merito di Rudolf Virchow, un medico tedesco che alla metà dell’Ottocento, in pieno agosto, ha portato moglie e figli in villeggiatura e poi si è chiuso in laboratorio per fare un centinaio di autopsie e dimostrare la relazione tra i coaguli del sangue nelle vene e l’embolia polmonare. Se avesse dovuto chiedere al comitato etico il permesso di fare uno studio autoptico su quei cadaveri, al giorno d’oggi forse non avrebbe ricevuto l’autorizzazione nemmeno nell’agosto successivo. Io dico che un controllo etico è necessario per svolgere con trasparenza il nostro lavoro, ma i meccanismi burocratici troppo spesso vogliono dare anche giudizi scientifici, che invece spettano alla comunità dei ricercatori. Ad esempio se vogliamo che la ricerca possa progredire spedita si dovrebbero poter usare tutti i frammenti di tessuto che residuano da un intervento chirurgico e che verrebbero buttati. Semplicemente informando i pazienti.
E il freno endogeno?
Spesso noto nei ragazzi, anche di talento, un tentativo di fuga dalla dimensione manageriale della ricerca. È affascinante stare al microscopio, ma ogni progetto deve passare da una valutazione economica, fare i conti con un budget. I cervelli in fuga, come vengono definiti, spesso sono quei ricercatori magari molto bravi che non vogliono sacrificare tempo per realizzare un business plan per sviluppare la loro idea. Preferiscono spostarsi in paesi nei quali gli stanziamenti per la ricerca sono maggiori e i percorsi di fundraising maggiormente supportati da personale amministrativo. Quello che dovremmo insegnare ai nostri PhD è appunto la capacità di scrivere progetti per ottenere fondi europei. Io ad esempio sono andato negli Stati Uniti, a San Francisco soprattutto, per imparare e per riportare tutte quelle conoscenze nel mio Paese. Inclusa la capacità di progettare una ricerca in base al budget disponibile. Non ho mai pensato di fare ricerca per i soldi, ma sempre di usare i soldi per fare ricerca.
Il progetto di crowdfunding Unife per trovare una cura all’atassia rientra in questo approccio manageriale…
Mi sembra una iniziativa di grande utilità da molti punti di vista. Innanzitutto è un modo per raccontare la ricerca di qualità che si fa nel nostro Ateneo. Così la ricerca non è più solo un fatto tecnico, assume un significato filosofico e culturale, perché diventa di tutti. Poi anche una piccola cifra, di poche migliaia di euro, può essere decisiva nella fase germinale di un percorso. Magari quei soldi servono per modificare uno strumento, accelerare alcuni processi, fare un esperimento che conferma una tua intuizione. Da lì puoi scrivere una proof of concept, e quei primi risultati saranno determinanti per la ricerca dei finanziamenti. Diciamo che il crowdfunding può rappresentare quella fondamentale benzina iniziale. Anche perché le alternative non sono per nulla convincenti…
A cosa si riferisce?
Penso a quelle associazioni che sfruttano facce di ricercatori non ancora affermati e lo spavento per una malattia devastante in spot televisivi per raccogliere fondi che serviranno solo a fare comunicazione. Il crowdfunding è esattamente il contrario di questo sensazionalismo medico.
INFO e DONAZIONI:
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