Sabato 5 ottobre, via Vignatagliata 33A, ore 19.00. Tra i vari eventi collaterali al Festival di Internazionale di certo non è passata inosservata l’apertura della nuova sede di HPO, durante la quale centinaia di persone hanno occupato la piccola via del ghetto ferrarese.
Nati come “reazione a una condizione di noia dopo giorni di samba brasiliana e precisione svizzera”, come si raccontano loro, il collettivo HPO ha inizialmente voluto creare le condizioni per vivere l’Università di Architettura come esperienza propositiva e non passiva. Oggi si definiscono un collettivo che “spazia tra architettura, design e arti performative” e il loro metodo basato sulla sperimentazione. Trovano fondamentale l’importanza del lavoro di squadra e credono nella figura del progettista sia come ideatore che alle volte anche realizzatore.
La loro sede in Vignatagliata, già intravista sui social qualche giorno prima dell’apertura, è uno spazio aperto, mantenuto consapevolmente spoglio. Saltano all’occhio alcuni particolari come bocchette d’aria gialle, un sistema di cavi verdi perfettamente allineati lungo il decorso delle pareti per poi calare dall’alto esattamente sul tavolo di lavoro, un tendone in materiale plastico, sempre giallo, per separare i due ambienti principali.
Anche l’illuminazione non è casuale, ed entrando si delinea un gioco interessante tra neon gialli e blu. In particolare colpisce un sistema di laser verdi che tagliano l’aria per definire un cono di spazio. Si tratta di Laserhut, l’ultima installazione firmata HPO ispirata all’utilizzo non convenzionale di oggetti comuni. Nasce dall’osservazione degli eventi che hanno recentemente coinvolto Hong Kong, regione amministrativa speciale della Cina, che nel 2047 tornerà sotto il potere della Repubblica Popolare Cinese. Alcune operazioni legislative hanno portato a pensare agli abitanti che Pechino stia forzando questa transizione, scatenando una protesta cittadina di forte impatto mediatico internazionale. Per potersi esprimere, i partecipanti hanno dovuto utilizzare oggetti comuni come ombrelli o puntatori laser per contrastare le forze dell’ordine. Questo inusuale utilizzo li ha trasformati in veri e propri simboli della protesta.
Laserhut è il progetto con il quale il Collettivo HPO si presenta al pubblico ed esprime a pieno la sinergia tra ricerca e praticità presente nel loro metodo, che li porta a creare soluzioni innovative nelle quali è lo spazio ad essere protagonista.
Cominciando dalla fine, come vi è sembrato l’evento di apertura della vostra nuova sede?
La serata per noi è andata decisamente bene, c’è stata una buona risposta dalla città e anche un coinvolgimento inaspettato da parte di alcune personalità ferraresi che non conoscevamo. Non ci aspettavamo neanche numeri di questa portata: nell’arco della serata avremo visto 400-500 persone in flusso continuo. Siamo contenti anche che il nostro ultimo progetto, l’installazione di laser, sia piaciuta e abbia coinvolto la gente presente. Laserhut infatti non è una scenografia o un allestimento creato per l’evento, ma ha una sua autonomia progettuale. Durante l’evento di apertura abbiamo voluto presentarci con l’esposizione di un progetto complesso che potesse raccontare noi e il nostro lavoro in questo spazio.
A proposito del vostro lavoro qui, che futuro avrà la vostra sede in Vignatagliata? Sarà un posto aperto al pubblico oppure riservato a voi come studio?
L’HQ è diviso in due spazi. Il primo, quello al di là della tenda gialla, rappresenta il nostro spazio, uno studio con un tavolo grande, libri, computer e materiali nel quale lavoreremo, anche in collaborazione con altre persone. Lo spazio all’ingresso invece lo vogliamo lasciare per l’esposizione di progetti.
Al momento ci stiamo guardando intorno, tenendo conto anche delle realtà che abbiamo conosciuto sabato, perché abbiamo intenzione di rilasciare a breve una programmazione. Quello che ci piacerebbe fare non è solo ospitare eventi, ma anche trovare una collaborazione con altre realtà per creare qualcosa di inedito che possa arricchire entrambe le parti.
I vostri progetti si sono sviluppati spesso all’esterno, dislocati sul territorio ferrarese e non. Come pensate che cambierà il vostro approccio avendo una sede fissa a vostra disposizione?
Siamo sempre dell’idea che l’architettura debba essere portata fuori invece che essere chiusa in stanze. Adesso che abbiamo una sede non vogliamo portare tutto all’interno di un contenitore, ma arricchire il nostro lavoro di possibilità che prima non avevamo. Pensiamo che un contesto limitato come questo, nel quale possiamo sentirci liberi e tutelati, ci possa permettere di sperimentare in piccola-media scala con efficacia e in tempi ridotti.
Provenite da diverse città, ma Ferrara vi accumuna per gli studi. Come mai avete deciso di rimanere qui?
Per noi è importante essere a Ferrara. È la città in cui casualmente ci siamo incontrati e nella quale è iniziato tutto. La città è piccola, non è un centro metropolitano come Milano o Berlino, per cui potrebbe non risultare il luogo più fertile per uno studio di architettura. Ma proprio perché è una realtà piccola pensiamo che possa aiutarci per iniziare ad essere autonomi e forti nell’agire sul luogo, consentendoci di fare cose che in altre città sarebbero impossibili. Oltre alla questione logistica però crediamo nel valore di Ferrara e alle possibilità dello scambio reciproco che possiamo costruire, crediamo fermamente che operando qui potremmo avere una risonanza più ampia e interessante, e infine crediamo di poter portare qualcosa di appetibile che possa connettere la provincia in un sistema globale.
Collettivo HPO è composto da dieci persone, ma i vostri nomi non si trovano così facilmente. In passato più studi hanno deciso di non firmare individualmente i progetti. Anche per voi è stata una scelta?
Il numero dei partecipanti al momento è dieci ma siamo un gruppo dinamico, domani potrebbero essere otto oppure dodici. Sicuramente da un punto di vista pratico c’è la volontà di essere un gruppo ampio di persone che permetta la formazione di più team per lavorare su diversi progetti in parallelo in completa autonomia, ma dal punto di vista ideologico teniamo molto all’importanza dell’agire collettivo, perché lavorando insieme possiamo avere un impatto più forte e più grande che essendo da soli. Non siamo i cavalieri mascherati, i nostri nomi e le nostre facce ci sono. Semplicemente diamo più importanza all’identità del collettivo.
Trovo divertente che abbiate tirato fuori la questione dei cavalieri mascherati, perché osservandovi la prima cosa che si può notare è che indossate un “costume”. Come mai avete scelto di presentarvi con una divisa?
In realtà teniamo molto a questa cosa, per la quale siamo in continua ricerca, se così si può definire. È un costume a tutti gli effetti. Un costume nato come progetto spin-off di Supercinema Apollo, durante il quale ci siamo resi conto che il processo di costruzione sul luogo era esso stesso parte del progetto. La necessità di renderci riconoscibili è diventato un espediente comunicativo per l’installazione sia prima che venisse costruita che in seguito su internet e social. Anche per l’allestimento del’HQ c’è stata una necessità comunicativa del processo di trasformazione. Abbiamo mostrato sui social qualcosa che non fosse un tutorial, bensì abbiamo creato, all’interno di una scenografia quasi teatrale, dei contenuti con una valenza performativa che fossero attrattivi per il pubblico, strizzando l’occhio alle tendenze voyeuristiche della nostra società.
Mi vengono in mente il gruppo di lavoro Isotype o lo studio Unimark, che indossavano il camice a rappresentare la scientificità e l’autorevolezza del loro lavoro. Trovo interessante quindi non solo l’idea di avere un costume che vi identifichi come gruppo, ma il fatto di aver scelto come divisa proprio una tuta da lavoro.
Sia la tuta blu integrale da operaio che il giubbotto sono indumenti da lavoro che abbiamo personalizzato inserendo alcuni dettagli e stampando il nome del collettivo. Oltre che aver valenza comunicativa, la divisa rappresenta un oggetto pratico con il quale possiamo lavorare e letteralmente sporcarci le mani. Rappresenta una rottura con l’appiattimento generale che vediamo in alcuni studi di architettura, i quali tendono a limitarsi solo al lavoro al computer. Guardiamo invece indietro alle realtà innovative degli anni Settanta, prendendo come figure di riferimento studi come Memphis e Superstudio, due casi italiani fuori dalle righe sicuramente più divertenti e memorabili rispetto ad altri studi forse anche di maggiore successo.
Guardando invece al vostro passato, come è nato Collettivo HPO e con quali esigenze?
Il gruppo è nato all’interno della Facoltà di Architettura di Ferrara, considerata una delle migliori università italiane di architettura dal punto di vista di statistiche e ranking. Alcuni di noi però, tornando a Ferrara dopo alcune esperienze all’estero, dal Brasile alla Svizzera, dal Cile al Portogallo, hanno notato che già a livello studentesco ci fosse quell’appiattimento che da allora e ancora oggi vorremmo sovvertire. Ci siamo uniti e abbiamo iniziato ad organizzare eventi come la serie di conferenze Menodieci durante le quali abbiamo invitato diversi studi con meno di dieci anni di attività a parlare con gli studenti della facoltà, per condividere i diversi punti di vista e approcci con i quali sono riusciti a rinnovarsi e uscire dalle righe durante il nostro periodo storico. Ogni conferenza è stata un’occasione anche per noi per costruire qualcosa, da allestimenti a feste universitarie, da workshop a esposizioni sugli armadietti dell’università. Ad un certo punto sono nati dei progetti anche all’esterno dell’università, con i quali ci siamo potuti interfacciare con altre realtà del territorio, come ad esempio il Kinetoscopio che abbiamo presentato all’evento Take Over organizzato da Resina oppure l’installazione Zero presentata durante una edizione di Interno Verde. Nel frattempo molti di noi si sono laureati continuando a lavorare senza soluzione di continuità, consolidandosi a questo punto in un’associazione culturale a tutti gli effetti.
Una piccola curiosità: HPO significa qualcosa?
Ospedale di Prato. Rappresenta il primo progetto di gruppo affrontato durante un laboratorio di progettazione del terzo anno, il cui tema era la decostruzione dell’Ospedale di Prato. L’abbreviazione ci piaceva ma soprattutto è l’espediente che ci ha fatto lavorare insieme per la prima volta, facendoci capire che vale la pena lavorare in gruppo.
I vostri progetti ormai non si possono più contare sulle dita delle mani. Quali pensate vi abbiano fatto crescere maggiormente dal punto di vista lavorativo?
Ogni progetto ha comportato un passo avanti, portando con sé la soddisfazione di aver ampliato e migliorato le nostre competenze: con un progetto siamo usciti dall’università, con l’altro abbiamo disposto per la prima volta qualcosa sulle teste delle persone, con un altro ancora abbiamo lavorato nello spazio pubblico. Al momento stiamo lavorando sul nostro primo allestimento permanente, e sicuramente anche questo è un grande passo avanti.
Senza parlare di progetti in senso stretto, riteniamo molto importanti anche le occasioni in cui siamo stati invitati a parlare, come ad esempio di recente a Roma durante la presentazione ATLAS New Generation Festival o a Firenze all’Ordine degli Architetti, o quando siamo stati invitati per una talk organizzata da KooZA/RCH durante la Milano Design Week. L’importanza di queste conferenze non è tanto il successo del nostro nome, bensì il fatto che queste occasioni ci abbiano costretti a mettere in parole cosa siamo e cosa vogliamo fare. Fino ad allora non era stato necessario dover consegnare una biografia, un curriculum o discutere sul nostro metodo di lavoro, e partecipare a questi momenti di consapevolezza, di scambio e di riscontro con altre realtà ci hanno sicuramente dato uno slancio per continuare.
Progetti futuri?
Al momento stiamo lavorando a un progetto per la città di Modena, un’architettura permanente visitabile dal pubblico. A Ferrara invece stiamo cercando delle collaborazioni da portare nella programmazione che presenteremo all’interno della sede di Vignatagliata, che verrà aperta al pubblico durante i momenti di condivisione. In realtà la porta è sempre aperta a chiunque voglia collaborare con noi, associazioni o privati, di Ferrara e non, con un’idea che possiamo condividere e sulla quale possiamo lavorare.