Etimologicamente “paradiso“ significa recinto, un luogo incantato dove al male non è concesso di entrare. Anche quando abbiamo cercato di immaginare un mondo perfetto, l’abbiamo immaginato come un recinto.
(dall’incipit di “Paradiso Italia”, Mirko Orlando)
“Nel libro c’è un momento dove io sto intervistando un ragazzo, gli sto scattando delle foto e lui incomincia a piangere mentre mi racconta del suo progetto di vita. Ora, quel momento da un certo punto di vista stupidamente giornalistico, quell’immagine dell’immigrato che scoppia in lacrime può anche funzionare. Però tu sei lì, davanti a quella persona, stai condividendo quel momento in quella baracca, con una persona con cui hai dormito e passato giorni assieme. E allora ti chiedi: è così essenziale fotografare un uomo che piange? Dove sta la notizia? E’ così assurdo che un uomo che ha abbandonato la sua terra e la sua famiglia pianga? E allora capisci che la macchina fotografica può essere un enorme problema e scegli di abbassarla.”
Siamo a pochi metri da Factory Grisù, prima dell’incontro ufficiale di presentazione di “Paradiso Italia” (Edicola Ediciones) con l’autore Mirko Orlando.
Un’opera particolare per il suo muoversi su uno dei temi più roventi di questi anni, quello dell’immigrazione, attraverso tre linguaggi che scorrono paralleli lungo le pagine del libro: fotografia, disegno e testo. Un libro dove si mischiano parole, realtà e fantasia uscite dalla stessa penna, frutto di un lavoro di oltre due anni di conoscenza, di vita vissuta vicino alle persone che si spostano.
Hai scelto di mischiare i due linguaggi, fotografico e del disegno all’interno della stessa storia. Quale ritieni sia più aderente al vero, la fotografia, che spesso nasconde in realtà la necessità di una preparazione e di una tecnica, o il disegno che per la sua natura stessa non è realtà, in quanto nasce dalla tua mano?
Il motivo per cui ho intrecciato i due linguaggi è perché, per mia impostazione, ritengo che entrambi i linguaggi abbiano pregi e difetti per raccontare un periodo storico. La fotografia ha una leggendaria aderenza alla realtà, con l’obiettività fotografica come mito e che pure nasconde in realtà il punto di vista e la tecnica dell’autore. Il suo vantaggio però è che ti costringe ad esserci: non puoi fare delle fotografie stando a casa tua. Ti obbliga ad essere sul campo, a conoscere quella realtà e questo è uno snodo centrale del racconto.
Il disegno quando lo si utilizza, come in questo caso, come strumento di graphic journalism, ha un potere di diffusione del mezzo e delle possibilità che alla fotografia oggi non sono più concesse, ha una grammatica diversa e ci siamo in un certo qual modo anestetizzati alle fotografie, ne siamo costantemente sottoposti e in qualche modo ne riceviamo meno impatto.
Tra i due linguaggi hai scelto quello del disegno per la copertina, l’unico in cui compare del colore. Come mai questa scelta?
Volevo che l’immagine di copertina fosse altamente simbolica: c’è un mio ritratto con gli occhi coperti dalla bandiera italiana e questo era un messaggio che non avrei potuto veicolare in maniera diversa. Inoltre non volevo, come spesso viene fatto, utilizzare la fotografia come esca per attrarre lo spettatore. Però nel libro ho cercato di mantenere in equilibrio i due linguaggi, senza nessuna predominanza, anche perché quello che è più importante nel libro è la narrazione delle storie delle persone, dei migranti.
Infatti è piuttosto interessante scoprire pagina dopo pagina che Paradiso Italia è fondamentalmente un racconto di persone e di vite, di incontri e pensieri, con ampio spazio per didascalie e riflessioni dell’autore.
Io non sono né il primo né sarò l’ultimo a parlare di questo tema, delle migrazioni. Quello che a me colpisce e ciò che mi ha spinto a questo lavoro è che si parla costantemente di questa tematica ma senza dare voce a chi si muove, i migranti stessi. È sempre una narrazione che viene dall’uomo bianco che subisce il fenomeno, contribuendo a far percepire il tema come quello di un agente esterno che penetra in un organismo, facendolo ammalare, cambiandolo e ferendolo. In realtà per raccontare un fenomeno bisogna riuscire a cambiare costantemente il punto di vista della narrazione: il mio interesse era quello di puntare la luce sul soggetto mancante della narrazione, facendo uscire la storia degli immigrati, non solo dal punto di vista biografico ma anche in senso sociologico e politico. Bisogna cercare di coinvolgere queste persone come soggetti attivi della discussione: una delle prime forme di disumanizzazione è quella di privare l’altro del linguaggio.
Tu hai scelto di essere per lunghi periodi vicino a migranti, a persone in difficoltà, in Africa come in paesi Orientali. Eppure anche in Italia c’è una grande emigrazione di persone che cercano possibilità che non trovano nel nostro paese: come racconteresti queste storie? È davvero così diverso il percorso?
In realtà, se guardiamo ad esempio al 2016 (anno numericamente più importante per gli arrivi) vi sono stati numeri analoghi per l’accoglienza (circa 180mila sbarchi e 157mila partenze, secondo il cruscotto Istat 2016, nda). Quello che cambia e quello che ho cercato di raccontare è il viaggio: noi possiamo muoverci nel mondo attraverso un aereo. Questi migranti che vengono dall’Africa affrontano un viaggio che li cambia profondamente. Un viaggio che è una tragedia.
E in che modo tu hai cercato di raccontare questo fenomeno? In questo momento storico ci sono delle retoriche che non funzionano rispetto ad una certa narrazione più facile sul tema delle migrazioni. Come hai cercato di trasmettere con le tue parole, le fotografie e il disegno questo processo in atto?
In realtà, viaggiando nel mondo ci si accorge di tante affinità all’interno dei movimenti umani e allo stesso tempo di tanta diversità, culturale, che c’è tra i popoli. Io credo che sia importante smettere di raccontare le persone: bisogna permettergli di raccontarsi. Dare loro semplicemente voce, quando tu inizi ad aggiungere le loro voci al coro le cose prendono una forma diversa, si bilancia la narrazione pubblica.
Se tu vai in India o in Libano ti rendi conto che stiamo davvero parlando di niente, l’uomo da sempre si sposta e ci sono intere società che hanno già assorbito il fenomeno, dove la maggioranza è composta da persone meticce. In fondo, per guardare a noi, già ora leggevo che Londra è la terza città per numero di italiani (nel 2016 la quinta secondo i dati, nda).
Torniamo, per concludere a quel migrante in lacrime, su cui hai appoggiato la fotocamera smettendo di scattare.
Vedi, lui dice una cosa bellissima: Let Us Help Us (lasciateci aiutarci). Dice: voi vi lamentate delle stesse cose di cui ci lamentiamo noi. Ci sentiamo ripetere: queste persone dormono, mangiano, vengono mantenute. Io l’unica cosa che non vi chiedo è proprio questa: voi invece mi date da mangiare, da dormire, devo imparare l’italiano. Io chiedo invece la possibilità di avere i documenti per lavorare: chiediamo di avere una possibilità.
Mirko Orlando è nato a Napoli nel 1981. Completati gli studi si dedica alla fotografia, all’illustrazione e alla scrittura, pubblicando articoli e reportage su periodici nazionali tra cui “Gente di fotografia”, “Barricate”, “L’aperitivo illustrato”, “A”, “Illuminazioni”, “Fotoinfo”, “Domus”, “Storia e futuro” e “Tracce”. È autore dei saggi di antropologia visiva “Fotografia post mortem” (Castelvecchi) e “La fotografia memoriale” (Il Mulino), e del libro fotografico “Il volto (e la voce) della strada” (Lindau). Attualmente vive e insegna a Torino.
INSTAGRAM: https://www.instagram.com/mirkoorlando_01/
2 commenti