Un romanzo… se lo rigira tra le mani, ne ha un’intera pila di copie nella ricca libreria dietro le sue spalle, ma la sua è piena di scritte, sottolineature e appunti. È già stato letto e riletto, pubblicato, è in tutte le librerie – certamente farebbe ancora modifiche o piccole integrazioni. Anna Chiara Venturini è una ferrarese “sul pezzo”, che ti travolge con un ritmo e un piglio che non ti aspetti, ma che si emoziona ogni volta che parla del suo lavoro (quello di scrittrice). Ha deciso di scrivere del primo imperatore cinese, Qin Shi Huang Di, una delle poche personalità a cui la storia attribuisce un valore universale, attraverso la forma di un romanzo, edito da Minerva, indagandone un’umanità soffocata da un peso, quello di un impero, troppo grande per le spalle di chiunque.
Già dalla prima stesura, ancora sotto forma di bozza, Roberto Pazzi se ne è innamorato e ha spronato la Venturini nel continuare a scrivere una storia lontana da Ferrara e dalle sue amate Dolomiti.
Anna Chiara, ferrarese, lavora da anni nella Pubblica Amministrazione e decide di scrivere un romanzo sul primo imperatore cinese…
È forse proprio per non sentirmi imbrigliata nel linguaggio amministrativo, che sento la necessità di cambiare orizzonte. È difficile trovare colori e forme tra provvedimenti, atti e delibere, ma rilanciare l’emozione è spingersi altrove e la scrittura è energia pura. Proust, in À la recherche du temps perdu, cita il gioco dei giapponesi del mettere in una ciotola piena d’acqua piccoli frammenti di carta e restano in osservazione, finché imbevuti, assumono forme simili a pesci, fiori, case, magari visi. Scrivere è un po’ questo, perché dà volto all’emozione e mette in trasparenza il quadro che abbiamo dentro, un ricordo, un viaggio, un sogno.
La storia di Qin Shi Huang Di si intreccia inesorabilmente con quella dell’archeologa che ne scopre la sepoltura. L’introspezione, che si parli di imperatori o persone comuni, può essere considerato il filo conduttore del romanzo?
Dare vita a un personaggio storico come il primo imperatore cinese è stata una bella scommessa, complici curiosità e passione. La figura di Qin Shi Huang Di è controversa, collocata tra Bene e Male e circondata da coni d’ombra. Quelle ombre sono state la giusta provocazione per dare corpo nel romanzo alla convivenza tra presente e passato, tra bene e male. Non è stato semplice dare voce a un uomo vecchio millenni, che nessuno ha ancora dissepolto, ma faceva parte della sfida raccolta. Ho presente romanzi di autori illustri, che hanno interpretato in forma introspettiva altri personaggi della storia: Memorie di Adriano della Yourcenar, Giuliano di Vidal o Io, Claudio di Graves. Da piccola mi arrampicavo sui ghiaioni delle Dolomiti in cerca di minerali, mi piacevano i loro riflessi. Ora quei riflessi li cerco nelle persone, quando viaggio in treno, quando cammino per le strade, ed è quello che ho fatto con Qin. Sarà lui che, nello svolgersi del romanzo, rivelerà se stesso, le sue paure, i sensi di colpa, l’orgoglio per il suo esercito, la dolcezza verso il figlio ancora piccolo che vuole salire sulle cime più alte delle montagne per raggiungere le nuvole.
Leggendo le parole dell’Imperatore sembra quasi di sentire su di sé la pesantezza dell’abito o la debolezza della vecchiaia. Come nasce, cosa ha ispirato, questa visione quasi “fotografica” di Qin?
L’intero romanzo approfondisce il tema del tempo e dell’immortalità, in una Cina che ancora oggi non osa svegliare il sonno del suo primo imperatore, proprio mentre la Via della seta sta tracciando nuove coordinate nel quadro dell’economia mondiale, solcando l’Europa via terra e via mare. Non credo che per una potenza simile, se solo volesse farlo, sarebbe un’impresa impossibile scavare in quel sepolcro fino a raggiungere la tomba di Qin. Custodire per sempre l’imperatore in quella collina, piena di vegetazione e di alberi da frutto, significa per i Cinesi preservare il favore degli spiriti, ora come allora, e prolungare, chissà per quanto tempo, il viaggio verso l’eterno di un imperatore che, con la sua armata, riesce ancora ad affascinare ogni anno milioni di persone.
Sappiamo che il romanzo nasce anche da un bellissimo rapporto di scambio e collaborazione con un autore ferrarese di grande importanza: Roberto Pazzi.
Roberto Pazzi è stato molto più di un Virgilio per me. Anche adesso che ne parlo, nutro nei suoi confronti profonda riconoscenza e provo la stessa emozione che sento ogni volta che rileggo il brano di Proust sulla lanterna, con le sue impalpabili iridescenze. Ha saputo trasmettermi l’incantesimo e la gioia della scrittura. Un foglio bianco è troppo intrigante perché resti bianco. Per vincere la timidezza della penna mi occorreva una scossa emotiva, senza che mi sentissi profanata quando ho deciso di scrivere su quel foglio bianco qualcosa di me, della mia trasparenza. L’importante è ricordarsi di non dire tutto ciò che siamo, tenerci qualche segreto, me lo ha insegnato lui.
Ferrara è ancora un centro culturale importante? Come sta vivendo questa esperienza di autrice nella sua città?
Ferrara ha grandi possibilità, mi sto prendendo il tempo per sperimentarlo. Esiste una logica di investimenti e di programmazione, che però lascio agli amministratori, soprattutto ora che i monumenti più qualificanti della città sono in restyling. Le opere ci sono, le idee anche, non credo manchino le voci per esprimerle, ma le competenze sono ancora molto sparse, a volte dimenticate, magari andrebbero meglio coordinate a livello istituzionale. Mi piacerebbe anche che Ferrara ospitasse un premio letterario, diverso dal Premio Estense, che potesse raccogliere le nuove potenzialità. C’è tanta gente cui piace scrivere, che cerca una dritta e un luogo dove imparare. Scrivere è un’esigenza che nasce dal diritto di essere se stessi, perché l’ispirazione è sorella dell’intuizione. Hemingway diceva che non c’è niente di speciale nella scrittura, devi solo sederti davanti ad una macchina da scrivere e metterti a sanguinare. Il resto viene da sé. Mi piace augurarlo.