Uno degli aneddoti più famosi di Pupi Avati, che lui racconta con una certa leggerezza, è quello del desiderio di uccidere Lucio Dalla, facendolo volare dall’alto della Sagrada Familia di Barcellona, durante un tour della “Doctor Dixie Jazz Band”, di cui era giovane clarinettista.
L’ingresso nella band di quello che era allora un giovane sconosciuto spegne le velleità musicali del regista, che racconta con una certa ironia di questo desiderio poi abbandonato, quella volontà di eliminare la persona che si era frapposta tra lui e il suo sogno: troppo bravo, Lucio, fenomenale e di un’altra categoria. Per lui non c’era più posto.
Nel corso di una conversazione telefonica abbiamo parlato del Male, ovvero del lato oscuro presente in ognuno di noi, tema centrale del suo nuovo film “Il Signor Diavolo”. Il candore con cui il regista dichiara di voler abbracciare, raccontare, sviscerare il male che alberga nell’animo umano pone in una luce diversa questo aneddoto: il brivido che corre lungo la schiena è il messaggio della pellicola, l’oscurità del tema vuol fare riflettere su quanto davvero di sinistro alberga in ognuno di noi.
Le vorrei subito chiedere da dove deriva l’idea di ambientare il film in questa provincia del Nord scurissima, questa Comacchio e questo Delta del Po che sono non sfondo ma fulcro della sceneggiatura.
Il luogo è stato sicuramente una componente fondamentale di questa storia. L’avevo già incontrato, in tempi più lontani, dal 1976 (ne “La casa dalle finestre che ridono”) con l’idea di raccontare la storia di un prete donna che imperversava nei casolari della grande laguna del Po, di Comacchio e delle aree geografiche circostanti. Fui portato in quel luogo da quello che è poi diventato il mio direttore della fotografia, Cesare Martelli, grande esperto della zona e che mi fece scoprire alcune cose assolutamente impensabili di un’Emilia che nel frattempo era andata modificandosi, cambiando anno dopo anno. La regione era cambiata così tanto che era quasi impossibile raccontarne il passato, come volevo fare nei miei film.
Invece l’area del Delta del Po, di Comacchio, di Ferrara, di Bologna si trova un ambiente che è per caratteristiche naturali non modificabile: anche visitandolo oggi vi sono scenari con ambienti assolutamente incredibili.
Paesaggi di acqua, aironi, coltivazioni, portano spesso a domandarsi in quale tempo storico ci si trovi. La volontà e la possibilità di collocare le mie storie in questo ambiente, storie fantastiche, gotiche, oscure, dove la paura ad un certo punto del giorno diventa padrona è una grande possibilità offerta da un territorio straordinario. Ferrara, ad esempio, è la città dell’Emilia che più si è conservata, che ha mantenuto una sua identità storica, rispetto ad altre che hanno conservato al massimo il centro storico: Ferrara è invece rimasta fedele a se stessa, misteriosissima nei suoi vicoli. Le donne stesse di Ferrara hanno un’identità forte, in qualche modo contaminata dal vicino Veneto, si respira un’aria particolare. Non è certo un caso che Ferrara sia l’ambientazione de “Il Giardino dei Finzi Contini”.
E se caliamo questo contesto ne “Il Signor Diavolo” che immagine ne esce di questo ambiente, di questo territorio della provincia ferrarese?”
Ne esce un’immagine spaventevole, un pò come nel mio film “La casa delle finestre che ridono”, diversamente dalla classica immagine paciosa e rilassata che da sempre viene associata all’Emilia. Negli anni, nella cinematografia, se vi era nella sceneggiatura il personaggio di una prostituta era sempre di origini emiliane, magari bolognesi; così come spesso i preti, molto Don Camilleschi: tutte immagini rassicuranti in cui i momenti di tensione venivano sempre stemperati e conclusi con una pacca sulle spalle.
Io ho cercato di raccontare la parte in ombra di questa regione, che di oscurità ne ha tantissime. Qui interviene il male, il protagonista del mio film.
Solitamente l’horror è una metafora delle paure, degli spettri, degli incubi dell’animo umano. Nel suo film esiste questo scenario? Come si configura, cosa è il male in questa vicenda?
Io penso che esista una tema: la censura della figura del Diavolo, un’operazione che è stata iniziata dalla Chiesa già da molti anni. Se lei ci fa caso durante le omelie ormai non si nomina più il diavolo, l’inferno: sono diventati argomenti desueti da cui ci si tiene alla larga. Questo negare il male non vuol dire però escluderlo dalle nostre vite: pur non parlandone più, il male esiste e ho voluto affrontare il tema del male nella sua forma peggiore, quando non ha altro fine che il male stesso, senza giustificazione morale. Io, ad esempio, ammetto di essermi trovato nella vita a godere degli insuccessi dei miei colleghi: era puro male, non ho tratto alcun giovamento da questo. E’ stata una manifestazione di male fine a se stesso. Nell’animo umano c’è una parte che noi richiamiamo per autoassolverci. Io stesso mi rendo conto di essere stato vittima di questo male, della cattiveria: era il demonio veramente, nella vita di tutti i giorni. Il riassunto, il tema centrale de “Il Signor Diavolo” è che il demonio è ovunque.
Baudaleire diceva che “il più bel trucco del demonio sta nel convincerci che non esiste”.
Un’ultima domanda, ampliando il tema della realizzazione del suo film. Come è stato il processo di duplice scrittura prima del romanzo (2018, Guanda Editore) e poi della trasposizione ad una sceneggiatura cinematografica per la realizzazione del film?
Quando io scrivo in termini letterari ho la libertà di scrivere con un linguaggio spudorato, privo di freni. Non ho le dimensioni di budget che mi frenano. Posso scrivere qualunque cosa, anche temporalmente non ho l’incombere dei ventiquattro fotogrammi al secondo, di un ritmo da mantenere. La dimensione letteraria mi consente di fermare la trama, raccontare i pensieri dei personaggi, nella scrittura c’è una vastità, una grande libertà, una possibilità di ampliare la trama senza confini. Il cinema, invece, ha bisogno di sintesi e soprattutto di fare continuamente i conti con il budget. Banalmente, io non posso descrivere l’arrivo di duecentocinquanta cavalieri che scendono dalla collina quando il mio budget me ne permette tre. Nella mia tastiera, in termini di sceneggiatura cinematografica, c’è un’accetta che mi limita durante la produzione del film: il mio immaginario è grande quanto il budget di cui dispongo. Questi aspetti si scoprono quando si impara a fare cinema. Uno scrittore puro invece questi limiti non se li deve porre perché la sua opera inizia e finisce nei confini del computer con cui la scrive, senza paletti da mantenere.
E si ritiene soddisfatto della trasposizione cinematografica della sua opera?
Io sono soddisfattissimo e le prime proiezioni mi hanno confermato che ho raggiunto l’obiettivo di un film portatore di una grande tensione emotiva, con un grande sbigottimento nel finale: era il mio scopo. Il finale stesso è molto importante in questa tipologia di film e tra l’altro è un finale variato rispetto al libro: arricchito, perché per aggiungere elementi a chi avesse letto il libro e non può quindi vedere un’opera di cui conosce già tutto.
Pupi Avati sarà presente mercoledì 28 Agosto per introdurre e presentare “Il Signor Diavolo” alla Sala Apollo di Ferrara.