Mahatma Gandhi muore assassinato nel 1948.
Una delle sue frasi più importanti, semplice quanto efficace è la seguente: “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Una frase piuttosto nota e riscoperta dal sottoscritto per caso durante la scrittura di questo articolo, insieme a quest’altra:
“Ci sono persone nel mondo così affamate, che Dio non può apparire loro se non in forma di pane”.
Unire una dimensione quasi filosofica alla produzione di pane – dimensione in realtà riduttiva nel progetto Officina Integrale – sembra quasi la sintesi naturale per raccontare la storia di questa nuova attività.
Inserito nella rotonda di Piazzale San Giovanni, non si può definire né punto di partenza né punto di arrivo di un progetto a lungo termine ed è una perfetta contro-pubblicità ad un’epoca in cui si tende a semplificare ogni racconto e storia, in poche e sterili parole.
“Voi probabilmente non l’avete mai mangiata la coppia ferrarese, quella di una volta” ci spiega (o forse ci sfida) Simona Fantini, una dei quattro soci fondatori e in qualche modo anima etica del gruppo, con un percorso di lunga data legato alla medicina naturale ed integrata, da sempre sostenitrice di una alimentazione consapevole.
Riavvolge il nastro degli ultimi decenni di sapere comune, in cui il pane è diventato da alimento base della cucina italiana un prodotto percepito come non del tutto sano, il cui consumo va limitato all’interno delle diete, e senz’altro inadatto a persone con alcune intolleranze.
Produrre un pane integrale vuol dire invece mantenere nella loro interezza tutte le caratteristiche naturali dei grani e delle farine derivate. Vuol dire macinare con la pietra, a basse temperature, non aggiungere nessun elemento e, soprattutto, non eliminarne durante la produzione, riuscendo in questo modo a mantenere la crusca e il germe del chicco del grano, contrariamente a quello che avviene nei processi industriali. Questo consente di avere un prodotto sano, molto più tollerabile per il nostro organismo e assolutamente buono, con un sapore in grado di richiamare la memoria storica che l’uomo porta con sé da secoli.
È proprio nel dopoguerra (casualmente, quindi, quando si interrompe la vita di Gandhi) che l’industria entra nel settore alimentare, impoverendo materie prime e prodotti finiti per raggiungere, a costi bassi e con produzioni veloci, il mercato di massa.
Con questa consapevolezza e le esperienze pregresse di Davide Moretti (marito di Simona) Vittorio Campanella (titolare dell’omonimo forno, ora chiuso per concentrarsi su questo progetto) e sua moglie Isolana Zuncheddu (impegnata con la vendita e l’accoglienza) nasce una società che già dallo slogan gioca sul duplice concetto di “infornare ed informare”.
Officina Integrale è infatti solo il primo passo, fisico, di un percorso che vuole offrire consapevolezza e cultura dell’alimentazione alla città di Ferrara, senza l’idea di superiorità, e con un forte messaggio etico di fondo.
L’ambiziosa roadmap di Officina prevede dall’autunno prossimo incontri serali, il coinvolgimento dei bambini per laboratori in cui imparare l’arte del pane nella cucina a vista del locale, la partecipazione ad eventi della città (come il prossimo festival di Internazionale) e il coinvolgimento di altre realtà locali presenti sul territorio per creare una rete legata al tema dell’alimentazione sana.
Al termine del nostro incontro assistiamo alla preparazioni di pagnotte e della famosa Coppia. L’entusiasmo di Simona nel racconto è pari all’arte quasi silenziosa di Vittorio e Davide, che in qualche modo fanno parlare le mani restituendo valore alla parola “artigiano”, ovvero quelle persone che tramite un’arte acquisita producono qualcosa, a partire dalle materie prime.
L’idea della cucina a vista viene dall’esperienza di metropoli come Milano, dove è un valore aggiunto di trasparenza nei ristoranti, una dimostrazione di qualità e pulizia. Nel nostro caso ha un valore educativo: vedere la tradizionale Coppia ferrarese fatta a mano significa scoprire quasi un’opera d’arte. Allo stesso modo è incredibile vedere in azione la macchina che aiuta nella preparazione del pane, uguale da decenni, realizzata e utilizzata solo a Ferrara. Perché non esiste in altre provincie la Coppia ferrarese.
La macchina produttiva di Officina Integrale è partita solo da alcune settimane, dopo diversi mesi di prove all’interno delle esperienze precedenti. Qui le linee integrali avevano riscosso grande consenso, contribuendo a far comprendere al pubblico come un pane integrale non sia necessariamente l’alternativa sana e meno buona: all’opposto, risulta migliore al palato e più sana per il nostro organismo.
Il ritorno a processi tradizionali colpisce per il contrasto con cui i soci hanno impostato una visione moderna del progetto: logo, cataloghi, pubblicazioni, il lavoro sui social network. “È importante avere un’idea ma anche saperla comunicare: i tempi lo impongono”, ci spiega Olga Muntean, impegnata nel progetto per ampliare l’interesse e la rete dove il forno rappresenta solo l’avamposto di un vero e proprio cambiamento culturale.
È interessante il parallelo che si scorge percorrendo la storia personale di Gandhi che circa un secolo fa esortò la popolazione indiana ad uno stile di vita agreste e primitivo, rurale, lontano dalle modernità occidentali, culminato con il ritorno della tessitura a mano come simbolo della disobbedienza civile.
Il cambiamento di Officina Integrale sta invece nel tentare di rivolgersi ad una platea sempre più ampia di persone disposte ad accettare un diverso tipo di alimentazione, per arrivare a cambiare percezione e coscienza del pane stesso.
Ed è questo il fulcro di questa storia. La storia di qualche decennio nella storia personale di famiglie che unite hanno studiato, sperimentato, investito e rischiato in una direzione che sembra essere allo stesso tempo di impresa e di vita.
C’è un’ultima frase, più correttamente un mantra, di Gandhi da riportare qui: abbiamo la sensazione che ad Officina Integrale lo abbiano in qualche modo ripetuto e messo in pratica.
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